L’ondata di attivismo legata ad eventi con visibilità mondiale ha dato vita ad un dibattito sull’essenza di queste azioni. Ed ecco che si è cominciato quindi a parlare di performative activism.
Il termine, che ha un’accezione negativa, si riferisce ad azioni fatte per aumentare il proprio capitale sociale piuttosto per vera devozione ad una specifica causa.
Il termine ha cominciato a circolare in seguito alle proteste del movimento Black Lives Matter, la cui portata ha portato molta gente a chiedersi come mai quegli incidenti in particolare abbiano portato alla mobilitazione di massa. La portata del BLM è da imputare interamente alla visibilità acquisita dalla causa anche grazie ai social media: striscioni, cartelli, murales, post e hashtag su instagram.
Il movimento del BLM aveva da parte sua ognuno di questi fattori. Però per quanto si sia parlato del BLM ci sono altrettante cause ignorate dai più, come gli atti di violenza contro le comunità asiatiche, il razzismo contro le persone appartenenti alle comunità native e il genocidio delle stesse, la persistente violazione dei diritti delle persone trans o, più in generale, appartenenti alla comunità LGBTQIA+.
Il termine è comparso nuovamente in seguito al Met Gala, dove celebrità di ogni calibro si sono esibite in attivismo sociale sfoggiando abiti, ad esempio, con messaggi provocatori. Sebbene queste frecciatine stilistiche siano state criticate per aver ostentato messaggi, spesso scritti, che avrebbero dovuto essere ovvi anche senza una chiave di lettura, lo sdegno generale si è generato, però, in seguito ad altre vicissitudini in cui sono coinvolte le star.
Il vero motivo per cui si è cominciato a parlare di performative activism come un vero e proprio problema della società moderna, infatti, è stato l’annuncio del programma americano intitolato “The Activist”, in cui l’attivismo si sarebbe trasformato in una gara a colpi di atti beneficienza per vincere il montepremi finale. Quando è uscita la notizia di chi avrebbe presentato lo show – Priyanka Chopra Jonas, Usher e Julianne Hough – la rosa dei nomi ha scatenato la rabbia generale. Le persone sui social si sono scagliate apertamente – come nel caso di Jameela Jamil, l’attrice, modella e attivista britannica – contro il budget del programma, tenendo conto soprattutto dell’erario dei presentatori, e contro l’idea stessa del programma, in quanto avrebbe portato all’annullamento totale di quello che è realmente l’attivismo nato per dedizione ad una causa e trasformandolo semplicemente in un espediente mediatico con un fine lucrativo. In seguito al backlashricevuto, l’emittente ha fatto un passo indietro, reinventando il programma e trasformandolo in un documentario incentrato sull’attivismo. Ma ormai il fanno era fatto e l’attenzione generale era stata catturata da questa accezione negativa dell’attivismo, portando a chiedersi, col senno di poi, quante persone famose siano effettivamente dedite ad una casa e quante, invece, lo facciano solo per migliorare la loro immagine pubblica.
L’uso sempre maggiore di questa forma di attivismo porta inoltre a chiedersi se, in un’epoca in cui la visibilità è il metodo di misura di ogni cosa, forme di attivismo meno ostentose possano ancora considerarsi valide.
Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei ventenni