Cultura, potere e genere: perché il potere è degli uomini, nostro malgrado

L’antropologia culturale è una scienza inquieta, fondata sulla fondamentale e inaspettata dicotomia del distacco scientifico e del coinvolgimento ed è l’interpretazione degli altri in condizioni storiche determinate (Leclerc, 1973), ma soprattutto «non è una scienza imparziale come l’astronomia, che prevede un’osservazione a distanza. (…) La sua capacità di valutare più oggettivamente le vicende che riguardano la condizione umana riflette, a livello epistemologico, uno stato di cose in cui una parte del genere umano trattava l’altra come un oggetto» (Lévi-Strauss, 1966).

L’impresa antropologica è possibile insomma solo quando una storia si trova impegnata di fronte a tutte le altre storie: non vi sono tante antropologie, piuttosto tante culture.
Ma cosa intendiamo per cultura? Secondo Edward Tylor, la cultura – presa nel significato etnologico più ampio – è «quell’insieme complesso che include il sapere, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume, e ogni altra competenza e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro della società». L’aggettivo acquisiti diventa qui nucleo fondamentale perché sottrae una serie crescente di comportamenti alla spinta organica o innatistica, proponendo una chiave di lettura delle diversità incentrata sulle diversità tra culture stesse.
L’antropologia culturale nasce quindi con una duplice missione: rendere conto delle differenze tra popoli e culture e costruire un grande affresco della storia dell’umanità andando a scandagliare presunte origini precedenti. E se inizialmente (XIX/XX sec.) la spinta alla nascita di questa disciplina si riscontrava nei problemi posti ai colonizzatori, l’antropologia è intervenuta via via in soccorso di tutte le battaglie contro il razzismo prima e l’intolleranza a ogni forma di differenza poi, compresa quella di genere. Con Bronisław Malinowski si arriva infatti a definire l’antropologia come lo studio dell’uomo, che comprende anche la donna. In seguito, si giungerà alla consapevolezza che ciò che è uomo e ciò che è donna, in ogni società, non è il frutto di una essenza/natura maschile o femminile, bensì di una forma di relazione e di riconoscimento reciproco particolare, segnata per lo più da reciprocità negativa.

La nuova antropologia delle donne muove i primi passi negli anni Settanta e ha come oggetto di studio e ricerca il modo in cui le donne sono rappresentate. La critica si sofferma su tre aspetti del c.d. pregiudizio androcentrico (partendo dall’ambito della ricerca stessa):

  • sul campo si tende a cercare informatori maschi (piuttosto che femmine) perché ci hanno insegnato che gli uomini controllano il maggior numero delle informazioni;
  • le società considerano le donne in posizione marginale e/o subordinata;
  • tutte le relazioni asimmetriche tra uomini e donne in altre culture sono interpretate come equivalenti alle nostre relazioni, in cui l’asimmetria corrisponde a ineguaglianza e l’ineguaglianza a una gerarchia e un rapporto di potere sbilanciato.

Ma non finisce qui: l’antropologia economica indaga i rapporti tra modo di produzione domestico e modo di produzione dominante, mostrando la funzione fondamentale del primo rispetto al secondo, e l’antropologia politica confronta i rapporti tra donne e potere, ipotizzando un cambiamento da una posizione di relativa uguaglianza nelle società pre-statuali e pre-monetarie a una subordinazione legata al formarsi degli Stati.

L’antropologia, con il suo lavoro instancabile di comparazione, ci costringe ad aprire gli occhi.
Vi era un tempo in cui Dio era femmina: si pensi al pendaglio d’avorio di mammut ritrovato nella grotta di Hohle Fels, in Germania, raffigurante una donna grassa, con natiche grandi e seni spropositati; quasi sicuramente una divinità femminile, come lo erano le c.d. Veneri del Neolitico ritrovate sia in Asia che in Europa e le statuine di donne-civetta che rimandano a una civiltà precedente a Sumeri e Greci egualitaria, pacifica, che credeva in una dea madre. Una civiltà di donne, insomma. Questa ipotesi del matriarcato, che ritroviamo in miti come le Amazzoni e Medusa, è stata confermata da Momolina Marconi e dai suoi studi sulla civiltà dei Pelasgi che credeva in una Grande madre mediterranea e professava un’età d’oro di bilanciamento tra i sessi. Decine di etnie, ancora oggi, risultano essere matriarcali: dai Mosuo dello Yunnan cinese ai Bemba dell’Africa centrale, dai Trobriandesi della Melanesia ai Cuna al largo di Panamà.

Il matriarcato non è un ribaltamento del patriarcato: è una cultura di bilanciamento dei ruoli in cui i clan funzionano su base assembleare, alla continua ricerca del consenso.
Le cose cambiarono tra il 4500 a.C. e il 3000 a.C., con l’arrivo nella vecchia Europa e nel Vicino Oriente di popoli guerrieri provenienti dalle pianure del Volga, che influenzarono la religione e i costumi dei popoli conquistati nella direzione del patriarcato. Fu un processo lento, che giunse dall’esterno ma trovò l’appoggio di molti maschi nelle popolazioni matriarcali e fu influenzato dalla trasformazione della guerra in forma di economia. Per far sì che le terre conquistate rimanessero ai propri discendenti, i maschi pretesero la sicurezza della maternità e iniziarono a segregare le donne.

Il resto è storia ed è nostro preciso compito interrogarci sulle sue fasi e sul significato di potere, che equivale di volta in volta ai concetti di forza, legittimazione, autorità e partecipazione economica.
E un Paese come l’Italia, al 118° posto nel mondo per partecipazione economica delle donne e ultimo in Europa per occupazione femminile, dovrebbe farlo ogni giorno.
Le evidenze sull’ampiezza e sulla varietà dei divari di genere suggeriscono, nel nostro Paese, che vi sia un insieme di concause con diversi gradi di persistenza: si va dall’istruzione alla fecondità, dai fattori culturali alla conciliazione tra vita professionale e familiare.

La legislazione italiana, in termini di pari opportunità, ha attraversato tre fasi:

  • la prima, negli anni Settanta, con il riconoscimento del principio di parità nelle diverse sfere della vita sociale e lavorativa;
  • la seconda, negli anni Ottanta, con interventi mirati alla promozione della partecipazione femminile al mercato del lavoro e al coinvolgimento attivo delle donne nei processi decisionali;
  • la terza, a cavallo tra gli anni Novanta e gli anni Zero, in cui è stato recepito il principio a livello europeo secondo cui la parità non è un obiettivo, ma dev’essere perseguita in tutti i settori (c.d. gender mainstreaming).

Se il quadro normativo appare quasi allineato a quello degli altri Paesi europei, rimangono differenze rilevanti in termini di effettiva applicazione – e, quindi, efficacia – nel contrasto delle radici dei divari.
Questo è ancora un mondo per uomini, ci piaccia oppure no.
Ma la storia ci insegna che la parità è possibile e mi auguro che sia ancora e presto «luce di verità, vita della memoria, maestra di vita, annunciatrice di tempi antichi» (Cicerone).