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Cesare Pavese a settant’anni dalla morte

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©lapresse archivio storico cultura anno 1950 Cesare Pavese nella foto: Cesare Pavese riceve il premio strega BUSTA 2169

“L’uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia.”

Dialoghi con Leucò

Era il 27 agosto del 1950 e Cesare Pavese, traduttore, editore e scrittore di successo, si suicidava in una stanza d’albergo di Torino assumendo una massiccia dose di barbiturici. All’interno della sua copia di Dialoghi con Leucò lasciò scritto “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Non fate troppi pettegolezzi”. Sempre nella stessa copia dei Dialoghi un biglietto con tre frasi “L’uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia”, una dal proprio diario, “Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti”, e “Ho cercato me stesso”. Una richiesta e tre frasi che possono essere il sunto, o come direbbe lui un “consuntivo” della sua vita di scrittore e uomo. Gli era chiaro, fin troppo, il suo ruolo, il suo insegnamento, il suo apporto culturale, abbracciando tutti i limiti e le contraddizioni che lo animavano.

Cesare Pavese era all’apice della carriera, aveva appena vinto il Premio Strega, era circondato dalle personalità culturali più influenti del periodo, era egli stesso una delle personalità più influenti del periodo. Eppure. Eppure non bastò. Chi lo conosceva e gli era vicino (quel tanto che lo scrittore consentiva) all’indomani del gesto disse che non sospettava che sarebbe arrivato a tanto. Calvino, qualche anno dopo, disse che non sapeva che “era un disperato cronico, dalle ripetute crisi suicide”. Al contrario, i suoi più vecchi amici lo sapevano, sapevano e vedevano che se ne andava in giro con quell’aura di tristezza addosso, quell’aura che Calvino, sempre nello stesso intervento, chiamò corazza. Pensava che fosse una corazza, che si fosse costruito una corazza che gli permetteva di tenere lontane quelle brutture della vita che ci fanno pensare che non esiste via d’uscita. Natalia Ginzburg invece lo conosceva bene e attraverso le bellissime parole di Ritratto di un amico ricorda il Pavese uomo, amico, collega, scrittore. Un uomo triste, che teneva tutti un po’ distanti da sé, a tratti arrogante e superbo, ma con l’aria da adolescente svagato e malinconico e comunque capace di gesti di affetto e premura tali da sembrare una madre. Difficile se non impossibile avvicinarlo, aiutarlo soprattutto nei momenti in cui il poeta appariva più triste e perso agli occhi degli amici.

Aveva, negli ultimi anni, un viso solcato e scavato, devastato da travagliati pensieri: ma conservò fino all’ultimo, nella figura, la gentilezza d’un adolescente. Diventò, negli ultimi anni, uno scrittore famoso; ma questo non mutò in nulla le sue abitudini schive, né la modestia della sua attitudine, né l’umiltà, coscienziosa fino allo scrupolo, del suo lavoro d’ogni giorno. Quando gli chiedevamo se gli piaceva d’essere famoso, rispondeva, con un ghigno superbo, che se l’era sempre aspettato: aveva, a volte, un ghigno astuto e superbo, fanciullesco e malevolo, che lampeggiava e spariva. Ma quell’esserselo sempre aspettato, significava che la cosa raggiunta non gli dava piú nessuna gioia: perché era incapace di godere delle cose e di amarle, non appena le aveva. Diceva di conoscere ormai la sua arte cosí a fondo, che essa non gli offriva piú nessun segreto: e non offrendogli piú segreti, non lo interessava piú. Noi stessi suoi amici, lui ci diceva, non avevamo piú segreti per lui e lo annoiavamo infinitamente; e noi, mortificati d’annoiarlo, non riuscivamo a dirgli che vedevamo bene dove sbagliava: nel non volersi piegare ad amare il corso quotidiano dell’esistenza, che procede uniforme, e apparentemente senza segreti. Gli restava dunque, da conquistare, la realtà quotidiana; ma questa era proibita e imprendibile per lui che ne aveva, insieme, sete e ribrezzo; e cosí non poteva che guardarla come da sconfinate lontananze.

Ritratto di un amico

Per Pavese la letteratura è sempre stata occasione e possibilità di potersi districare nel caotico magma del quotidiano. Quasi tutte le opere di Pavese contengono motivi autobiografici: dai racconti di Lavorare stanca,ai romanzi, alle poesie. In moltissime sue opere è possibile ravvisare un riferimento alle vicende umane dello scrittore, riferimento che rappresenta un modo di ripensare e ri-rappresentare un suo stato d’animo, oltre che un’esperienza vissuta sia dal punto di vista psicologico che ideologico: il confinato Stefano, il professore Corrado, oppure la suicida Rosetta.
Rosetta. Rosetta è uno dei personaggi di Tra donne sole e a differenza di Stefano e Corrado, che rappresentano la quasi esatta riproduzione di un passato realmente vissuto dallo scrittore, incarna un’esperienza futura. Forse è azzardato o esagerato affermare che Pavese con la vicenda di Rosetta avesse deciso di scrivere la sceneggiatura del suo stesso suicidio,ma che sia stato un caso oppure no il destino di Pavese in qualche modo ricalca quello della ragazza, la quale, dopo aver già tentato il suicidio, si toglie la vita in una stanza d’albergo.

Voleva stare da sola, voleva isolarsi dal baccano, e nel suo ambiente non si può star soli, non si può far da soli se non levandosi di mezzo.

Tra donne sole

Ma dei destini simili – se non identici – lo si scoprirà solo in seguito, leggendo il Mestiere di vivere. Anche vincere lo Strega non cambiò le cose di una virgola, e ancora una volta lo dimostra il Diario. Pavese vinse il Premio nell’estate del ‘50 proprio con la Bella estate, la raccolta di romanzi che contiene anche Tra donne sole. Il 17 agosto 1950 Pavese annotava nel suo Diario:

È la prima volta che faccio il consuntivo di un anno non ancor finito.
Nel mio mestiere dunque sono re.
In dieci anni ho fatto tutto. Se penso alle esitazioni di allora.
Nella mia vita sono più disperato e perduto di allora. Che cosa ho messo insieme? Niente. Ho ignorato per qualche anno le mie tare, ho vissuto come se non esistessero. Sono stato stoico. Era eroismo? No, non ho fatto fatica. E poi, al primo assalto dell’«inquieta angosciosa», sono ricaduto nella sabbia mobile. Da marzo mi ci dibatto. Non importano i nomi. Sono altro che nomi di fortuna, nomi casuali – se non quelli, altri? Resta che ora so qual è il mio più alto trionfo – e a questo trionfo manca la carne, manca il sangue, manca la vita.
Non ho più nulla da desiderare su questa terra, tranne quella cosa che quindici anni di fallimenti ormai escludono.
Questo il consuntivo dell’anno non finito, che non finirò.

Il Mestiere di vivere

La decisione era presa: non avrebbe finito l’anno. Non rimanevano più esitazioni, ripensamenti. Ma capisce anche che era la carne, la vita che gli mancava, quella quotidiana; una scintilla, qualcosa di più o qualcosa di diverso. L’amore, forse, la “grande affermazione” di cui l’autore scrisse in un’altra pagina del Diario. È certo, tuttavia, che l’atto mancato dell’amore, ogni volta e con donne diverse – Tina, Fernanda, Bianca e Constance –, non fu motivo di suicidio. Non l’unico motivo, anche se troppo spesso qualcuno ha voluto ridurre tutto al suo ultimo ed ennesimo amore non corrisposto. Pavese aveva amato e tragicamente, quasi sempre non ricambiato. Ma siamo così sicuri che questo sarebbe stato sufficiente?

Il suicidio, il “vizio assurdo” della morte, accompagnò Pavese per tutta la vita, sin da ragazzino: il suicidio di un compagno di scuola lo sconvolse a tal punto da passare le giornate a ritornare ossessivamente sul gesto. Dal Diario, ancora, si apprende quante volte Pavese tentò il suicidio prima di togliersi la vita nel ‘50. Eppure, alla luce della sua opera, dello studio della sua vita e del suo Diario, verrebbe da dire che in effetti non era un disperato alla maniera in cui di solito si intendono coloro che non tollerano più lo stare al mondo. O meglio, sì, anche a quella maniera. Pavese nel Mestiere di vivere parla spesso di suicidio e di morte volontaria. Ed è intorno a questi termini che forse c’è lo scarto di significato, la discriminante, rispetto al suo modo di intendere la vita e la morte. Un’idea di morte volontaria appunto, come approdo. Pavese aveva calcolato tutto tutto, e in effetti era tutto così ben pianificato che l’autore, in ultimo, lasciò le sue memorie in una cartellina verde con sopra un foglio e la scritta “1935-1950. Mestiere di vivere. Cesare Pavese”. E poi ancora la scritta sulla prima pagina della sua copia dei Dialoghi con Leucò (e il famoso biglietto), compiendo così l’ultimo atto: il suo gesto estremo di affermazione.

Non aveva, in fondo, per uccidersi, alcun motivo reale. Ma compose insieme più motivi e ne calcolò la somma, con precisione fulminea, e ancora li compose insieme e ancora vide, assentendo col suo sorriso maligno, che il risultato era identico e quindi esatto. Guardò anche oltre la sua vita, nei nostri giorni futuri, guardò come si sarebbe comportata la gente, nei confronti dei suoi libri della sua memoria. Guardò oltre la morte, come quelli che amano la vita e non sanno staccarsene, e pur pensando alla morte vanno immaginando non la morte, ma la vita. Lui tuttavia non amava la vita, e quel suo guardare oltre la sua propria morte non era amore per la vita, ma un pronto calcolo di circostanze, perché nulla, nemmeno dopo morto, potesse coglierlo di sorpresa.

Lessico famigliare

Crediti immagine: ilfattoquotidiano.it

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