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Carriera alias e libertà educativa nelle scuole d’Italia: a che punto siamo?

Foto di Alexander Grey su Unsplash

Ad avvio del nuovo anno, ritorna un tema caldo: la Carriera alias. In Italia sono all’incirca 250 gli istituti scolastici, contro le 40.879 sedi statali sparse nel territorio, che hanno introdotto la carriera alias nel proprio regolamento. Solo nel Lazio le scuole ad aver introdotto il protocollo sono 44, seguite della regione Lombardia con 34 e poi dalla Toscana con 31 istituti. Di fatto, la carriera alias sancisce un accordo di riservatezza e un protocollo tra la scuola, l’ente, l’azienda e il soggetto trans che frequenta il luogo pubblico che consente di registrarsi con il nome che più corrisponde alla propria identità di genere, anche se questo sia diverso da quello anagrafico. Nel registro elettronico adottato dagli istituti scolastici viene, in questo modo, modificato il nome anagrafico con quello scelto dalla persona che sta effettuando la transizione.

Per chiarire, se uno studente Serena Rossi sta affrontando un processo di transizione di genere per modificare il proprio sesso e preferisce essere chiamato con il nome Mario, allora può fare ricorso alla carriera alias – in quegli istituti in cui è già regolamento – permettendogli di iscriversi ed essere riconosciuto con il nome che lo identifica al meglio. Tramite questa procedura, il riconoscimento della identità alias, sostengono i promotori del protocollo, tra cui numerosi giovani studenti, vengono evitati alle persone transgender di subire una serie di disagi quotidiani legati al cosiddetto “deadname”, cioè il nome “morto” nel quale una persona transgender o non binaria non si riconosce più e vengono superate quelle forme istituzionalizzate di discriminazione.

Il primo caso era stato sollevato nell’ottobre del 2020 al liceo classico Tito Livio di Padova. Nel corso delle presentazioni delle liste elettorali per la candidatura dei rappresentati di istituto, uno studente candidato a ricoprire il ruolo chiese di cambiare il suo nome anagrafico nei moduli di presentazione della candidatura con quello con cui si riconosceva maggiormente: Alessio. Era appunto il nome elettorale di uno studente transgender ma anche il nome con cui era riconosciuto e chiamato da tutti i compagni di classe, amici e parenti. Semplicemente il nome che gli apparteneva. Allora però la richiesta posta al dirigente scolastico fu rigettata e la Alessio venne bloccata. Da quel momento in poi molte associazioni si sono interrogate sul tema e hanno affrontato, continuano a farlo, gli attacchi che arrivano da parte della società e delle forze politiche spesso indifferenti e in contrapposizione alla proposta di carriera alias come palliativo anche alle ondate di omofobia e violenza che si vivono in presidi educativi quali le scuole. Nella tutela di questo protocollo di sensibilità all’identità di genere si legge anche la poca attenzione rispetto al problema della dispersione ed abbandono scolastico causati da difficoltà di adattamento ai contesti sociali per i soggetti che si trovano a vivere il cambiamento.
Sul tema, come sempre accade in democrazia, la società si trova divisa tra sostenitori riformisti di varia età che considerano l’attuazione della proposta nelle scuole un valido strumento per combattere il bullismo, le discriminazioni e l’emarginazione da parte di tanti studenti e talvolta, anche professori e i più fedeli conformisti che trovano il protocollo di genere una scelta illegittima e poco educativa.

Nei mesi scorsi, è stata presentata a una interrogazione parlamentare portata all’attenzione del ministro dell’istruzione e del merito, Giuseppe Valditara dal gruppo dei senatori di Fratelli d’Italia a cui è stato chiesto di intervenire con direttive nazionali fornendo risposte chiare e celeri, nonché di impegnarsi a favore della libertà educativa. Nel documento si chiedeva di fermare il riconoscimento e l’introduzione del registro per le carriere alias negli ambienti scolastici. Il motivo: il protocollo rappresenterebbe un pericolo al processo educativo. L’autodeterminazione di genere sarebbe un gesto affidato alla percezione soggettiva della propria identità sessuale in una fase evolutiva in cui, nella quasi totalità dei casi – viene riferito nella interrogazione – la percezione è temporanea e spontaneamente risolta nella maggiore età. Ed ancora, la carriera alias toglierebbe il primato educativo delle famiglie perché scavalcato delle iniziative ideologiche dalle scuole che lascerebbero agli studenti la libertà di cambiare identità di genere all’insaputa dei genitori. Un atto definito illegale appellandosi all’articolo 6 del codice civile in cui si dispone che: “Ogni persona ha diritto al nome che le è per legge attribuito. Nel nome si comprendono il prenome e il cognome. Non sono ammessi cambiamenti, aggiunte o rettifiche al nome, se non nei casi e con le formalità dalla legge indicati”. Un’esclusione tassativa tra le quali non rientrerebbe la carriera alias perché non disciplinata per legge.

Infatti, l’unico problema reale è che attualmente questo protocollo non è regolamentato in modo uniforme e univoco su tutto il territorio nazionale. L’applicazione è affidata alla sola sensibilità della direzione scolastica dei singoli istituti. E di fatto, nonostante le interpellanze avverse, la carriera alias è stata approvata da molti dirigenti scolastici e rettori universitari per rispondere alle sollecitazioni e richieste degli studenti. Ogni scuola, ha autonomamente definito una procedura specifica per attivare la carriera alias. In maggioranza sono state le famiglie a richiedere in maniera congiunta all’alunno minorenne, o se di maggiore età è stato direttamente il soggetto, di essere registrato e riconosciuto con una identità differente da quella assegnata alla nascita in base al sesso biologico. In altre scuole, invece, il protocollo è stato applicato a patto che sia dimostrato il percorso psicologico, medico e genetico teso a consentire l’eventuale rettifica dell’attribuzione dell’identità di genere e con esso il desiderio di utilizzare un nome diverso da quello anagrafico.


Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei ventenni

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