Trovare lavoro, oggi, è cosa rara; trovare lavoro nel settore per cui si studia o, più semplicemente, mettere a frutto le proprie passioni facendole diventare un lavoro sembra essere un’eccezione che capita a pochi fortunati.
Le generazioni di oggi hanno sicuramente più strumenti di quanti ne avessero i loro genitori. Fin da bambini si viene stimolati alla conoscenza di una o più lingue straniere, ci si abitua presto all’uso di nuove tecnologie, si ha la possibilità di dedicarsi ad attività laboratoriali, si viaggia con facilità e flessibilità, cosicché alla fine dell’iter scolastico ogni ragazzo ha già sviluppato delle competenze tali che gli permettono di scegliere se fare i primi passi nel mondo del lavoro oppure se proseguire i propri studi all’università. E non c’è il rischio di non trovare la propria strada, poiché ormai esistono talmente tanti percorsi di studio che hanno mille sfaccettature diverse che indirizzano poi a lauree specialistiche, master oppure scuole di specializzazione, per cui è quasi impossibile non trovare il proprio indirizzo. Anzi, sono così tante le possibilità di percorsi universitari che talvolta ci si disorienta. Se gli strumenti sono così tanti e così tanto fruibili, non è scontato che la loro qualità sia proporzionale a quello che offre la realtà al momento dell’inserimento nel mondo del lavoro. Spesso il gradino che separa il mondo degli studi da quello del lavoro è talmente ripido che sembra impossibile da superare. Le scuole e le università preparano persone competenti e capaci che, molto spesso, sono costrette a fare uno o più passi indietro per adattarsi alle regole del mercato.
Questo eterno dilemma, che trova un forte dislivello tra quello che si vuole fare e quello che si arriva a fare, è un punto nevralgico che è stato analizzato dall’economista e filosofo indiano Amartya Sen, vincitore del premio Nobel per l’Economia nel 1998. La teoria che racconta come poter rendere meno ripido lo scalino tra studi e lavoro si chiama “Capability Approach”. Sen pone al centro della teoria economica l’uomo, unico vero fruitore del mercato che, in quanto tale, consente all’economia di girare e, pertanto, deve anche essere “ripagato” prendendone parte attiva. In altre parole: se l’uomo dà qualcosa, deve anche ricevere, altrimenti si crea una macchina che funziona parzialmente e quindi in modo iniquo. L’uomo, dunque, per contribuire al meglio alla creazione di un processo economico che muove il mondo, deve partire dalle cose più sicure e innate che possiede naturalmente e che gli garantiscono una potenziale fruttuosità ovvero le proprie skills, le proprie capacità. Se ogni singolo essere umano riuscisse a potenziare le capacità che possiede facendole combaciare con i propri interessi, otterrebbe il lavoro che desidera e per cui è portato, mettendo in moto un circolo virtuoso di benessere che nasce dal buon uso delle proprie qualità e si trasforma in ricchezza economica per le sue tasche e che ne determina di nuova per coloro che ne fruiscono. Se tutti gli uomini mettessero a frutto le proprie capability genererebbero a loro volta un’economia sana e circolare che permetterebbe l’abbattimento del circolo vizioso a cui molto spesso ci costringono le dinamiche del mercato. Questa teoria rappresenta una rivalutazione che parte dal singolo individuo ma che trova riscontro nel tessuto sociale di cui è parte. Potenziare le proprie capacità significa anche garantire dignità all’uomo in quanto tale oltre che in quanto lavoratore, ponendo su un piano eguale le diverse qualità che caratterizzano i singoli individui e da cui nascono i differenti impieghi. Sen ristabilisce i termini del benessere economico, non più basati solo sui redditi familiari o sul PIL, ma concentrandosi sulla ricchezza che rappresenta ogni uomo attraverso il proprio bagaglio di conoscenze e di capacità. Analizzando attentamente, questa teoria economica si rivela come una delle più adattabili in quanto ripone la completa realizzazione di essa nelle nostre mani. È compito di ognuno di noi riconoscere le capacità che naturalmente possediamo, sta a noi metterle in pratica perseguendo i nostri obiettivi e infine, spetta a noi dare spazio alle nostre volontà più che alle nostre necessità. Questo processo ci metterebbe a riflettere davvero su cosa siamo capaci di fare e chissà se magari non vengono fuori mestieri nuovi che ancora non conosciamo!
Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei ventenni