Lo scorso sabato il mondo intero ha commemorato il ventennale dell’11 settembre, data che sicuramente trova e troverà posto nei libri di storia alla stregua di avvenimenti come l’attentato di Sarajevo che diede il via alla Grande Guerra. L’attentato contro gli Stati Uniti, invece, avrebbe dovuto trovare risposta nella guerra in Afghanistan, iniziata il 7 ottobre 2001, quindi, nemmeno un mese dopo l’attacco, e conclusasi nei fatti appena il trentuno agosto scorso. L’incursione di Abbottabad, nello stesso 2011, con la cattura e l’uccisione di Bin Laden, ideatore dell’11 settembre, fece pensare alla cessazione delle ostilità anche nel territorio afghano. L’invasione ha avuto, però, seguito per altri 10 anni e il tentativo di esportare la democrazia non ha sortito gli effetti sperati.
La storia insegna che la democrazia e la libertà nascono dall’interno, non sono frutto di imposizioni esterne e gli Stati Uniti, che nel 2020 hanno firmato i patti di Doha, sono stati protagonisti di una situazione paradossale. A partire dallo scorso mese di maggio, il ritiro delle truppe USA e NATO è stato accompagnato dalla progressiva nuova avanzata talebana, che nel giro di un mese ha, sostanzialmente, cancellato 20 anni di storia. I vecchi padroni dell’Afghanistan sono rientrati a Kabul il 15 Agosto e il 31 anche gli ultimi soldati occidentali hanno abbandonato, forse troppo in fretta, il Paese.
Molti di noi sono stati, indirettamente, testimoni di quanto accaduto venti anni fa e quasi tutti ricordiamo esattamente ciò che facevamo quando arrivò la notizia che qualcuno si era schiantato a bordo di un aereo contro le Torri Gemelle. Il mondo si fermò, mentre da New York arrivavano sulle nostre televisioni le immagini di un immane disastro. Persero la vita 2977 persone, 2753 nella sola Ground Zero. Le Twin Towers, simbolo del potere e dell’economia americana, alte rispettivamente 415 e 527,3 metri, con più di 110 piani ciascuna, furono distrutte.
Tra i vari fotogrammi passati alla storia, “The failing man” di Richard Drew rappresenta meglio di ogni altro cosa successe vent’anni fa. “L’uomo che cade” era, probabilmente, un cameriere di un ristorante situato al centoseiesimo piano di una delle torri. Non si ha contezza di quanti siano stati i “failing men” l’11 settembre 2001. Vedendo le foto dei civili afghani – tra di essi anche Zaki Anwari, 19enne calciatore afgano – che pur di fuggire dal regime dei talebani hanno tentato di aggrapparsi alle ruote di un aereo pronto al decollo nell’aeroporto di Kabul, durante l’evacuazione e, purtroppo, sono precipitati, chi di noi non ha rivisto le scene di venti anni fa? Questo tentativo disperato di cambiare il destino, di modificare il corso degli eventi, sebbene in minima parte, può essere inteso come un moto di ribellione. Queste persone hanno scelto di morire a modo loro. Sebbene fosse impossibile restare in vita dopo un impatto al suolo da un’altezza simile, così “the failing man” decise di non attendere che crollassero le Torri, come Anwari ha scelto di non attendere che a ucciderlo fossero i talebani.
Nel momento in cui si tenta di ricercare i vincitori ed i vinti di questa guerra, bisognerebbe prestare maggiore attenzione al sentimento che ha pervaso chi si è visto costretto a compiere una scelta simile nel giro di pochi attimi. I protagonisti di questi 20 anni non sono gli occidentali o i talebani, ma i civili che saranno dimenticati della storia e che hanno giocato la sfida più importante, quella col destino, anche se persa in partenza.
Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei ventenni