Una nuova alba per l’Etiopia

Quando Alfred Nobel ha istituito nel suo testamento il premio omonimo, ha permesso che l’amministrazione del suo intero patrimonio fosse devoluta al riconoscimento di personalità di prestigio che in diversi rami dello scibile avessero spiccato per aver apportato, col loro lavoro, “maggiori benefici
all’umanità”. Sarebbe interessante pensare a questo, come all’ennesimo gesto dell’inventore della dinamite per generare un boato nel mondo, letterale e figurativo. Dalla sua fondazione, infatti, insignire il Premio
Nobel non è mai stato semplice e alla proclamazione sono sempre seguite discussioni e polemiche, soprattutto per quanto riguarda il Premio Nobel per la Pace. Se, infatti, le altre categorie (chimica, fisica, letteratura, fisiologia o medicina ed economia) sono ritenuti i più prestigiosi assegnabili nei loro campi, anche grazie alla presenza di comitati specifici esterni, il Nobel per la Pace è sempre stato controverso e ha generato in molti casi dei veri terremoti politici e diplomatici.
A far alzare il sopracciglio è soprattutto la decisione di istituire un comitato separato dagli altri, costituito di cinque membri designati dal Parlamento norvegese, rendendo manifeste l’influenza e le intenzioni politiche che tale designazione comporta. Si tratta nella maggior parte dei casi, quindi, di uomini bianchi privilegiati con una visione eurocentrica del mondo a decidere il vincitore del premio, una prospettiva per sua natura ristretta che più volte è stata contestata. Tuttavia, negli anni non è stato possibile ignorare gli sviluppi politici che hanno coinvolto i paesi africani in via di sviluppo, paesi le cui problematiche- legate e generate da decenni di neocolonialismo e secoli di colonialismo- sono state affrontate sempre con difficoltà, quando i territori rappresentavano notevoli ricchezze con una eccessiva interferenza occidentale, o con la più completa e spietata indifferenza quando il Paese non rappresentasse un vantaggio strategico e in termini di risorse.

Rappresenta, quindi, un notevole passo avanti la scelta di nominare vincitore per il 2019 il primo ministro dell’Etiopia: Abiy Ahmed Ali. Di etnia oromo, i suoi genitori praticano religioni diverse, infatti il padre è musulmano e la madre cristiano-ortodossa. Aveva quindici anni quando fu rovesciato il governo del dittatore Mengistu Haile Marian, nel 1991 e ha da subito mostrato un acceso interesse per la politica, cosa che in Africa ti porta inevitabilmente in guerra, a combattere- se sei troppo giovane per far parte di un partito. Nonostante le difficoltà, la carriera militare gli ha permesso di finanziare i suoi studi, è laureato in filosofia e conseguendo un dottorato presso l’Istituto di studi sulla pace e sulla sicurezza. Viene nominato primo ministro nell’aprile 2018, dopo tre anni di proteste di piazza contro il governo precedente. Negli anni, solo sette personalità di origine africana sono state insignite del Premio Nobel per la Pace e su tutte spicca Nelson Mandela, fino al 11 ottobre 2019 unico politico africano nero ad essere investito di tale onorificenza, il cui impegno si era distinto per essere improntato sulla riconciliazione e pacificazione, concetti rivoluzionari in una terra dilaniata e in continua lotta.
Ed è proprio sugli stessi principi e per i suoi sforzi improntati sul raggiungimento della pace e della cooperazione internazionale, che viene premiato il premier etiope, grazie alla promozione di riforme che favorissero riconciliazione, solidarietà e giustizia sociale, soprattutto con la vicina Eritrea. La storia dell’Etiopia è fatta di continui dissidi, non solo esterni, con i paesi confinanti, ma anche interni, a causa della convivenza di due etnie principali: oromo (che sono in maggioranza) e tigrina. L’impari trattamento riservato all’etnia maggioritaria dalla coalizione che aveva governato per ventisette anni prima dell’elezione di Ali, il Fronte democratico rivoluzionario dei popoli etiopi, è stato la causa scatenante della guerra fratricida del 1998, a cui lo stesso neopremier prese parte.

Ha sentito sulla pelle le ingiustizie della discriminazione e dell’appartenenza ad una categoria vessata ed è riuscito ad essere il primo oromo eletto al governo, distinguendosi con un repentino cambio di rotta, non lasciandosi andare a sentimenti di vendetta ma aprendo le porte all’opposizione, trattando gli avversari come fratelli e liberando tutti i prigionieri politici. Un esempio di politica aperta e propositiva che fa ben
sperare, oltre alle efficienti riforme per lo sviluppo economico, in una ripresa del paese. Annullando lo stato di emergenza in cui versava e collaborando con il presidente eritreo Issaias Afeworki, ha inoltre aperto la
frontiera- chiusa dal 1998- lasciando sperare in un periodo florido anche a livello diplomatico internazionale, nonostante l’ombra sempre presente dei tigrini estremisti all’opposizione.
In queste circostanze il Premio Nobel per la Pace funge da catalizzatore per gli eventi e costringe la comunità internazionale a guardare con interesse alle nuove realtà politiche propositive dell’Africa, un riflettore positivo che può generare un sincero interesse globale per le cause della regione interessata. Un interesse che, si spera, possa tramutarsi in sostegno e permettere a quelle terre distrutte e meravigliose di assistere all’alba di una nuova era, fatta di pace e prosperità.