Una crisi da comunicare

Una cosa è certa: nulla sarà più come prima. Non tanto per la comparsa del Covid-19 in sé, quanto piuttosto per la sconcertante presa di coscienza della fragilità dell’ecosistema nel quale viviamo.
Confinati in casa, assistiamo impotenti al racconto delle eroiche gesta di medici, infermieri e di chiunque si stia mettendo all’opera per evitare il collasso di un sistema sanitario nazionale già stremato dai ripetuti tagli del passato, cui si affiancano i numeri stratosferici di denunce e multe comminate in tutta Italia per aver violato i divieti, sintomo di una sconcertante imbecillità, quella si, impossibile da debellare.
Sullo sfondo di un quadro che farebbe inorridire Goya, si delinea sempre più tetra e minacciosa la nube della gigantesca crisi economica che seguirà questo periodo d’emergenza e che – ahinoi – rischia di propagare i suoi effetti per un tempo decisamente superiore a quello dell’emergenza sanitaria.
Da Prometeia a Confindustria, fino all’OCSE, si infittisce il coro di chi indica con i propri dati una prospettiva economica a dir poco devastante per il nostro Paese.
In attesa che le polveri si sedimentino (o quantomeno che si abbia una stima definitiva della durata del lockdown), quello che si può fare, anche in chiave prospettica, è analizzare il ruolo determinante che la comunicazione riveste nel racconto della crisi in atto e del recovery che ne dovrà conseguire.

La comunicazione dell’emergenza Covid-19 si può infatti a tutti gli effetti considerare uno dei grandi protagonisti del dibattito pubblico, contendendo lo scettro alle finissime diatribe scientifiche tra i virologi superstar e alle immancabili teorie complottistiche da strapazzo che infestano il web.
In verità, nei primi giorni dell’emergenza la questione più discussa era forse proprio quella di una gestione della comunicazione, considerata troppo catastrofista da parte di media e autorità.
Un Premier Conte dal volto provato e la pochette stropicciata faceva il tour di tutte le emittenti televisive per parlare di una possibile catastrofe per il nostro Paese.
Il Presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, dopo aver inizialmente criticato l’uso di toni allarmistici, imbastiva una grottesca scena di mascherizzazione alla Hannibal Lecter in diretta Facebook, dopo aver scoperto che un membro del suo staff era risultato Covid-positivo.
I media, anche solo per il dovere di cronaca, non poterono che accodarsi al clima di sconcerto e paura.

Ai primi (ovvi) massicci crolli di Borsa, è partita la controffensiva di una comunicazione positiva, con inviti a ripartire con le proprie consuete attività provenienti da tutte le forze in campo. Risultato? Zingaretti che va a fare ape sui Navigli per poi risultare positivo al virus. Il conduttore Nicola Porro che banalizza il virus per poi ritrovarlo poco dopo quando, con sguardo smarrito, annuncia in diretta social la sua malattia. Il tutto mentre il numero di infetti esplode in Italia e ci si ritrova costretti man mano a spegnere l’Italia intera in un lockdown senza precedenti.
Insomma, un rollercoster comunicativo frenetico e confusionale, ma almeno in parte giustificato dall’incertezza causata da un virus fondamentalmente sconosciuto.

Proprio l’incertezza è la chiave di volta per comprendere quei giorni di fuoco. Per via delle diverse opinioni presenti nella comunità scientifica, siamo stati bombardati contemporaneamente sia dalle parole di chi invitava le istituzioni ad intervenire con misure draconiane che da quelle di chi invece considerava il Covid-19 nulla più di una banale influenza.
Proprio quando tutto è incerto e nebuloso, tuttavia, la comunicazione deve appropriarsi del ruolo che le compete.
Comunicare non vuol dire solo ideare e diffondere il primo messaggio che si ha in testa. Si tratta di un processo complesso e funzionale al perseguimento di determinati obiettivi.
In questi giorni ancora confusi, serve una comunicazione della responsabilità, che esalti il ruolo fondamentale che ognuno di noi esercita nel contenere la diffusione di questo virus.
Non sono le bombe che cadevano dal cielo, come raccontato dai nostri nonni. Si tratta di un nemico sconosciuto e invisibile, proprio come invisibile è quel senso di unità che per un Paese troppo spesso diviso, come il nostro, oggi riveste l’unica vera arma a disposizione per vincere questa particolare guerra.
Terminata l’emergenza la partita si sposterà verso una sfida ben più complessa, che riguarda la nostra economia. Non bisogna infatti mai dimenticare quanto soprattutto in condizioni di crisi, la comunicazione assuma un ruolo centrale nel destino economico di un un’organizzazione o un Paese. È stato evidente a tutti quando sono bastate le parole incaute della Presidente delle BCE Christine Lagarde per far crollare il 12 marzo la Borsa di Milano del 17%- il peggior ribasso nella storia dell’indice.
L’imminente “fase 2”, come definita dallo stesso Giuseppe Conte in conferenza stampa, vedrà piantati i primi semi della rinascita e sarà un momento delicatissimo nel racconto di questa emergenza. Lì avremo le tanto discusse app di tracking del Covid-19 e potremo scegliere tra quelle regionali, nazionali o addirittura globali, come quella allestita da Apple e Google. Data la loro natura volontaria, sarà essenziale comunicarle in modo adeguato, evidenziando il grande apporto che potranno dare alla causa (in Corea, ad esempio, grazie ad esse sono riusciti a contenere il contagio senza ricorrere ad alcun lockdown) e la temporaneità delle inevitabili deroghe alla privacy alla base del loro funzionamento.

Ci sarà infine una fase 3, il “day after”, in cui finalmente avremo alle spalle questa emergenza. Il gioco cambierà nuovamente, e dovremo elaborare una strategia di autentica “comunicazione della rinascita” per il nostro Paese, che spinga nuovamente l’export, il turismo ed i consumi interni.
Il gioco sarà però sempre, inevitabilmente, di squadra, perché in fin dei conti è valido quel vecchio detto anonimo secondo cui << la comunicazione parte non dalla bocca che parla ma dall’orecchio che ascolta>>.