Un mese di solitudine. Riflessioni e nessun aneddoto su Gabriel Garcia Marquez

Di Nicola H. Cosentino

Marquez ritratto da Richard Avedon

Due giorni dopo la morte di Gabriel Garcia Marquez, un giornale online pieno di buone intenzioni lo salutava come grande cineasta, attore, sceneggiatore e regista. Oltre, ovviamente, che come scrittore. Una foto, ad apertura del pezzo, ritraeva il Premio Nobel abbracciato a Shakira. Come didascalia, un bel pensiero della cantante su Twitter. E’ da un po’ di tempo che la formula della morte raccontata ritiene necessario questo gusto per le Curiosità. Del tipo: “Gabriel Garcia Marquez, da Cent’anni di Solitudine a quella volta che Vargas Llosa gli ruppe il naso”. Oppure: “Nelson Mandela, dal Carcere ai Fantastici Mondiali di Rugby del ‘95”. E così via. Questo perché certi personaggi sono talmente immensi e conclamati e ben comodi nella memoria collettiva del mondo da mettere in imbarazzo persino chi, per lavoro, dovrebbe raccontarli. Quali aneddoti inanellare, per accattivare un lettore rispetto alla vita di un personaggio che sente proprio? La risposta a questa domanda genera una folla di stramberie dimenticabili, come appunto la storia del pugno di Vargas Llosa, o la fantasia perversa secondo cui Gabriel Garcia Marquez, probabilmente il più grande scrittore che sia nato nel ‘900, vada ricordato come il regista di La langosta azul, un cortometraggio che girò bonariamente e senza pretese nel 1954, con un collettivo di amici creativi. Sarebbe un po’ come dire che Jane Fonda è memorabile per le sue VHS di aerobica casalinga, se non fosse che a Gabo avrebbe fatto piacere, questa forzatura, perché amò il cinema potentemente, ma di un amore non sempre ricambiato. E’ ironico, in questo senso, che la sua opera sia pressoché infilmabile, o almeno il suo capolavoro, che dal cinema avrà tratto (o anche no) un’immediata potenza descrittiva, lontana dai semi-braille ottocenteschi, ma che nel complesso rimane un’invenzione puramente e solamente letteraria. Nel senso più stretto del termine: Garcia Marquez ha scelto le parole, il verbo, e li ha cosparsi su una storia immensa, al servizio della stessa, ben consapevole che scrivere ‹‹Nell’ardore della festa esibì sul banco la sua inverosimile mascolinità›› sarebbe stato ben diverso da ‹‹Srotolò il suo pene sul tavolo››. Pur senza differenze di concetto. Forse più rischioso, perché il romanzo uscì nel 67, quando la cultura era spesso insofferente rispetto a se stessa. Come è noto, Pasolini non apprezzò per niente, definendone lo stile come uno spreco di manierismo barocco, e l’invenzione dei personaggi come uno studio demagogico da, appunto, casa di produzione americana. E’ vero, forse, ma il “successo spettacolare” di cui scrive Pasolini non ne pregiudica la qualità e la condizione, con buona pace degli autori sinceri, di capolavoro. Non perché delle sette generazioni della famiglia Buendìa nemmeno un’Amaranta, una Remedios, un Arcadio o un Aureliano (e ce ne sono ventidue) sia facilmente dimenticabile, ma piuttosto per l’invenzione del tempo che Marquez nasconde sotto la giustificabile demagogia di chi le storie le racconta anche perché piacciano. Il romanzo inizia con un’analessi che sembra una prolessi, o forse il contrario, la natura della retorica non conta: ‹‹Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendìa si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio››. In questa frase esiste un terzo tempo, rispetto a quello del Plotone ed a quello del Ghiaccio, ovvero il tempo immanente che li avvolge entrambi in un unico istante, che è il tempo della storia, in cui si srotolano cinquanta esistenze come fossero una, perdendosi ed incontrandosi anche da morte, destinate a capire che i cicli non esistono ma esistono le vite, e tutte si affastellano in un unicum sempre identico e circolare. Per questo l’ultimo Aureliano ci sembra senza grandi differenze il primo. A ciò si deve la confusione che talvolta si fa tra i nomi centuplicati dei figli e dei nipoti, il continuo citare se stessi, questo ritenere che la propria storia, il ricordo della propria gente, siano il centro dell’universo. Ecco la grandezza del regista di La langosta azul, demagogo e barocco: aver creato un concetto di tempo, difficile da spiegare, impossibile da misurare ma splendido da immaginare. Marquez ci ha suggerito che la vita è già completa mentre la viviamo. Lo scopriamo alla fine, forse tardi, come i ventidue Aureliani racchiusi in uno solo, mentre l’ultimo della stirpe ‹‹se lo stanno mangiando le formiche››. Ma non fa niente, nulla è perso, nel tempo istantaneo e circolare, disperante e consolatorio che ha inventato lui. Nemmeno la vita, appunto. Alla cui comprensione dedichiamo gran parte del nostro tempo, quello normale, che forse serve proprio a questo: imparare ad amare l’esistenza. Chi lo sa. Di certo nel mondo reale se ne vanno i grandi, e vanno via al momento giusto, come Marquez, come Mandela, lasciando spazio al gusto per i mediocri, all’era in cui lo sforzo non servirà poi tanto quanto il sottile gradimento e la buona comunicazione. Magari ce lo meritiamo, certo. Ma parole così belle non ne leggeremo più.

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