Crediti: Ventenni che piangono leggendo la saga di Paperon de' Paperoni. Pagina Facebook. Post del 10 Agosto 2016.

Ti pago in visibilità

Quando i contatti personali prendono il posto del vile denaro.

La modernità si nutre di paradossi, ne siamo ben consapevoli. Camminano tranquillamente in mezzo a noi persone che, pur avendo frigorifero e conto corrente vuoto, si ostinano a spendere denaro che non gli appartiene in beni di lusso sempre esposti a favore di camera. Apparire è essere; Essere è apparire per una fetta di popolazione mondiale in continua crescita.

In questa cornice si iscrive il paradosso visibilità che, alimentato dallo spirito liquido dei tempi (Zygmunt Bauman la chiamerebbe società liquida), si espande a macchia d’olio invadendo campi, come il lavoro, dove non avremmo mai creduto potesse contare qualcosa.
Chi si sarebbe mai aspettato che la pubblicizzazione di post sui social sarebbe diventato un lavoro vero e proprio? Io, onestamente, no.
La visibilità è, quindi, un fenomeno moderno e cruciale dalle due facce: da una parte ci sono concorrenti dei talent show, youtuber, influencers che riescono a guadagnare dalla diffusione sui social tanto da trascinare nel vortice della fama anche amici, colleghi, genitori, parrucchieri di fiducia, partners duraturi e/o occasionali e prole, tutti istruiti nel mettersi in posa (Ferragnez, Kardashian e gemelle Olsen docent); dall’altra il lato oscuro della visibilità è ingombrante quanto quello esposto ai social. La visibilità is a bitc*, volendo un po’ rielaborare un noto aforisma.

È vero che un post pubblicato su una pagina con molti followers può (badate bene all’uso del verbo potere) farti rimediare qualche contatto utile, ma quei contatti non ripagheranno mai dell’energia, del materiale, della dedizione al lavoro e degli investimenti economici fatti sulla formazione per acquisire o implementare delle capacità. 
Nasce qui l’ossessione del lavoratore moderno per il contratto, per la retribuzione, per il futuro; come dice uno dei personaggi della serie TV “Boris” ad uno stagista in procinto di firmare la proposta di stage: “Non è proprio un contratto…è una specie di assicurazione diciamo…per noi. Cioè noi ci assicuriamo che qualora tu ti faccia male NON CI SIAMO VISTI. NON CI CONOSCIAMO. Non abbiamo nessuna responsabilità. […] E’ un mondo difficile ragazzo, che ci vuoi fare. Ma tu sapevi tutto, giusto? […]. I contratti…i contratti…sti ragazzi… Ma che contratti, PASSIONE ci vuole; passione”.

È  lecito dunque sperare che a passione, visibilità o altro venga assegnata la dignità di una paga dignitosa e di tutele che ci spettano di diritto?
Nell’era millennials-centrica degli instragram-lovers, degli youtuber, degli influencers e degli hashtag: La visibilità può essere considerata una moneta di scambio?

Nel 2014 un gruppo di filmaker italiani, conosciuti come ZERO, ha lanciato una campagna “#coglioneNo”, con l’intento di sensibilizzare il mondo del lavoro al concetto del pagamento in visibilità spesso e volentieri applicato ai lavori creativi.
Filmaker, fotografi, designer, fumettisti, copywriter, pittori, scultori, giornalisti sono solo alcuni dei professionisti che, secondo la logica del “ti pago in visibilità”, dovrebbero accettare un elenco di contatti, invece di un bonifico.
Gruppo ZERO ha realizzato una serie di video molto divertenti dove il pagamento in visibilità viene rifilato a tutta una serie di professionisti ai quali non ci sogneremmo mai di rivolgere frasi di rito come: “non ci sono fondi per questo progetto”, passando per “dai, tanto tu ci metti un attimo”, “lo posto sulla mia pagina”, “fammelo a tempo perso” per finire con “ah, non sapevo ti facessi pagare”, per finire con l’evergreen “E’ un modo per te di farti conoscere; per fare esperienza”.
Direste mai il vostro dentista: “Dottore se mi fa la pulizia dei denti farò un post e due stories su di lei ed il suo studio, con degli hashtag che diventeranno subito trending topic. #dentisani #sorriso #bellidentro #nofilter”?.

La visibilità non può essere utilizzata per pagare il conto al ristorante, non salda le bollette, non viene convertita in acquisti e, decisamente, non può essere trattata alla stregua di un compenso per un lavoro svolto; se così non fosse ci troveremmo in un episodio di The Black Mirror (“Nosedive” per la precisione, dove la protagonista di un futuro distopico vede svanire la sua vita man mano che il suo punteggio social diminuisce). 
È di questo avviso anche un albergatore di Dublino, Paul Stenson, che lo scorso anno ha trollato una micro influencer, Elle Darby (portatrice sana di 88 mila follower) per aver chiesto una stanza per sé e per il suo compagno per una durata di 5 giorni, in cambio di visibilità su tutti i suoi canali social. Paul, profondamente indignato, ha postato la mail su Twitter (oscurando il nome della ragazza) e dando così inizio ad un uragano di polemiche, post ed interazioni, 34k in media per ogni post.
Gli esperti di influencer marketing potrebbero storcere il naso sul comportamento di Paul che, sicuramente infiammato dal clamore social suscitato dalla sua vicenda, ha scherzosamente inviato una finta fattura alla influencer per farsi pagare tutta la visibilità che le aveva procurato la vicenda da lui scatenata. Stenson però ha un grandissimo punto a suo favore: ha messo la questione sul piano dell’impossibilità di pagare gli stipendi ai suoi dipendenti, se si fosse lasciato convincere da questa, seppur opinabile, strategia di marketing.
Seppure volessimo credere che i post di Elle avrebbero fatto guadagnare altri soggiorni all’albergatore Paul, purtroppo ciò non significa che l’aumento di prenotazioni sia immediato. Potrebbero volerci mesi per vederne gli effetti mentre i dipendenti reclamano, a giusta ragione, uno stipendio mensile.

La questione del pagamento in visibilità è però talmente radicata nell’immaginario collettivo che anche le pubbliche amministrazioni hanno finito per utilizzare il ritorno di immagine come surrogato del pagamento in denaro. Esempio illustre quello di Roma Capitale che ha ben pensato di aprire un call per gli artisti in occasione dei festeggiamenti del Capodanno 2018 che recitava così:

“Roma Capitale, in occasione di questa bellissima festa, invita tutti coloro che siano appassionati di musica, canto e teatro, a voler condividere il proprio talento ed esibirsi negli spazi appositamente allestiti sul Lungotevere, nel tratto compreso tra ponte Garibaldi e Castel Sant’Angelo. Le proposte di intervento (con l’indicazione dei recapiti) vanno inviate via email entro le 12.00 del 20 Dicembre 2017 all’indirizzo staffdir.cultura@comune.roma.it allegando una breve presentazione, la descrizione della performance proposta e la sua durata. Si specifica che, durante le esibizioni, non potranno essere veicolati messaggi pubblicitari o politici, né potranno essere svolte attività di commercializzazione di prodotti di consumo.
La partecipazione è a titolo gratuito, ogni onere della performance sarà a carico del partecipante, durante le performance non sarà possibile raccogliere offerte.
Sulla base delle proposte ricevute e degli spazi disponibili, l’amministrazione si riserverà di accogliere le richieste nei limiti di compatibilità tecnico-organizzativi[1]”.

Lo sdoganamento di questa pratica è talmente trasversale che ha portato anche alla creazione di pagine sui social sull’argomento, in cui molti professionisti si raccontano reciprocamente le indecenti proposte di potenziali datori di lavoro che promettono un epocale ritorno pubblicitario.
Persino “Topolino”, il celebre fumetto per bambini, ha dedicato una vignetta alla questione.
Quando qualcosa che accade all’interno della società arriva ad essere rappresentato ai bambini può solo vuol dire che è parte, purtroppo, del vivere comune per enormi fasce di popolazione.
La ribellione a questa insana forma di retribuzione passa necessariamente attraverso la satira perché è l’unico modo per esorcizzare il problema.
È inconcepibile che ancora nel 2019 in un paese che si dice civile, ci siano persone che debbano vivere con il sogno di una paga per un lavoro svolto. Voglio però sperare che arginare questo fenomeno sia possibile. La politica, l’educazione ed il rispetto sono armi di cui ci possiamo e dobbiamo avvalere per rivendicare la dignità della professione e ricordare sempre che il lavoro svolto ed i servizi erogati hanno un valore e che quel valore deve essere misurato in soldi e beni di consumo, non in vane promesse e vuote speranze. Le vane promesse e le vuote speranze le lasciamo ai politici in campagna elettorale.
Parafrasando una famosa massima: “Il lavoro nobilita l’uomo… [ed io aggiungo] solo se è debitamente retribuito”.

[1] https://www.comune.roma.it/pcr/it/newsview.page?contentId=NEW1861291

https://www.comune.roma.it/pcr/it/newsview.page?contentId=NEW1868824