THE SKY IS THE LIMIT

Di Giovanna Cataldo

Globalizzazione e internazionalizzazione sono due parole che usiamo costantemente. Sentire dire ad uno studente che ha deciso di andare all’estero per completare gli studi, o per iniziare a lavorare non suscita più meraviglia. Sono finiti i tempi in cui i nostri bisnonni lasciavano la tanto amata Italia pieni di tanta speranza, ma senza un mestiere tra le mani.

Il fenomeno dell’emigrazione ha preso la piega opposta: ad andare via sono le menti più brillanti, il capitale umano altamente qualificato: medici, imprenditori, ricercatori, consulenti e studenti; per questo motivo il fenomeno è stato definito “fuga di cervelli”, i cui effetti si riflettono sia sul piano economico che sul piano sociale, offrendo spunti di riflessioni ai nostri politici.

Esistono diverse “scuole di pensiero” e molti studi per capire se l’effetto nel lungo termine del “brain drain” sull’economia di un paese sia positivo o negativo. Sicuramente non è un fenomeno da osservare in maniera passiva: le politiche attuate devono mirare non solo a trattenere le menti più brillanti, ma anche ad attrarre capitale umano straniero e a rendere più facile il ritorno di coloro che sono già andati via.

Chi ha una visione positiva del fenomeno lo definisce come “brain gain” o “brain circulation” più che “drain”. Se i nostri ricercatori, studenti o imprenditori hanno la possibilità di andare a trascorrere del tempo in un altro paese sicuramente avranno la possibilità di confrontarsi con realtà diverse, apprendere best practice che poi potranno applicare nel nostro paese. Allo stesso modo un imprenditore che viene ad investire nel nostro paese, oltre che capitale offre anche la sua conoscenza. Senza contare i benefici apportati da i nuovi posti di lavoro creati.

Io sono a favore del “brain circulation”: dobbiamo avere la possibilità di andare dove crediamo di poter imparare tanto e crescere, non solo professionalmente, ma anche personalmente. Conoscere nuove culture, imparare ad essere più tolleranti. Il guadagno per il paese da cui veniamo allora sarà raddoppiato. Oggi restano poche barriere che i mezzi di comunicazione e internet non abbiano fatto a pezzi, resta alle nostre istituzioni il compito di abbattere ciò che è rimasto.

I motivi che spingono un imprenditore ad investire in un altro paese sono diversi, la cui natura non è prettamente utilitaristica, ma sono frutto di mille altri fattori: le storie che mi hanno affascinato di più riguardano imprenditori, giovani italiani, che hanno deciso di andare all’estero per creare le loro imprese, in due settori completamente diversi.

La prima storia è quella di “pick1”, progetto che si è evoluto da Doochoo: è uno strumento online utilizzato dalle aziende nelle ricerche di marketing. Tramite il software è possibile iniziare dalla progettazione dei questionari, una volta che i dati sono raccolti vengono elaborati e analizzati, in modo da fornire all’azienda un maggiore insight sulla percezione che i consumatori hanno del loro prodotto, su cosa si aspettano, e molto altro.

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Il progetto è stato messo in piedi è sviluppato, ovviamente, a San Francisco, nella Silicon Valley. Ha interessato così tanto gli investitori che i suoi fondatori, Paolo Privitera e Armando Biondi, sono riusciti a raccogliere un milione di dollari, e perfino ad entrare nell’acceleratore americano “500 Startups”. Un’altra milestone per l’azienda è la partnership con Survey Monkey, strumento familiare a molti studenti di marketing.

Entrambi i fondatori hanno studiato in Italia, conseguendo i loro titoli a Venezia e Bologna, ma svolgono la loro attività imprenditoriale nel continente Americano, sia negli Stati Uniti che in Cile, concentrandosi per lo più su settore web e aziende in fase di Start-up.

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La seconda storia invece ha come protagonista il prodotto italiano per eccellenza: il gelato. Su questo siamo imbattibili, e perché non far conoscere al resto del mondo il vero gelato? Ci hanno pensato David Braido e Andrea Dal Farra con il loro ice-cream parlour “Capricci Italian Natural Gelato”. Hanno iniziato da Doha, in Qatar, conquistando i palati degli sceicchi e dei turisti che affollano la capitale.

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Sarebbe stato troppo facile andare in Francia o in Germania, come il nonno di David sessant’anni prima, dove la strada è spianata. Invece a Doha le sfide sono tante: bisogna creare consapevolezza sul prodotto, far capire che gli ingredienti sono naturali, genuini. L’italianità per loro è molto importante, sia in fase di preparazione che nel momento in cui si entra in contratto con il cliente: per un arabo o per un turista un italiano presente nel punto vendita è una garanzia di qualità.

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Di storie potremmo snocciolarne molte altre, alcune di successo, altre invece un po’ meno fortunate. Quello che ci deve rimanere è la consapevolezza di quello che possiamo fare in un mondo in cui le barriere vengono un po’ alla volta eliminate e dove il bagaglio che ci portiamo dietro non è fatto solo di speranze, ma di competenze acquisite e della nostra meravigliosa cultura italiana: allora sì che il nostro unico limite sarà il cielo.