Ricordate i loro nomi

Il problema del linguaggio dei media sul femminicidio

Negli ultimi giorni si sono susseguite notizie drammatiche che coinvolgono il gentil sesso: a Roma è stato annunciato lo sgombero della Casa delle Donne “Lucha y Siesta”, uno dei centri di accoglienza per donne vittime di violenza più importanti della capitale e, intanto, il numero di femminicidi aumenta in modo preoccupante. Un periodo, possiamo dire, non proprio roseo nonostante il sospiro di sollievo dato dalla crisi di governo, che ha scongiurato- almeno per il momento- il pericolo Pillon.

Pericoli ben più insidiosi si nascondono, tuttavia, in quegli elementi che fanno parte del nostro quotidiano, una scelta di parole e approcci ai temi caldi che influenza e impone inconsciamente una visione della donna che non permette emancipazione, ma ci lascia in una situazione di stallo dei diritti, se non addirittura un passo indietro.

Siamo di fronte ad un omicidio, l’ennesimo femminicidio. Elisa Pomarelli è stata strangolata da una persona che credeva amica, un uomo che ha confessato di essere il fautore del crimine e di aver nascosto per giorni il cadavere sottoterra. Cosa sappiamo dai giornali? Sappiamo che era un brav’uomo, un timido, qualcuno lo ha anche definito “il gigante buono”. Sappiamo tutto di lui, non di Elisa. Abbandonata, sepolta come lui l’aveva lasciata, coperta dal linguaggio ignobile che spesso accompagna questi fatti di cronaca. In una società in cui la donna ancora ricopre un ruolo subalterno, in cui il suo valore è dato dalla capacità di essere invisibile, di parlare sottovoce, non ci è permesso neanche di essere vittime.

La vita dell’uomo che uccide viene scandagliata, analizzata, spesso addirittura giustificata in relazione al suo reato, mentre della donna resta il pallido sorriso di una foto in sua compagnia, perché così tutto ciò che sapremo di lei sarà legato indissolubilmente a lui, quando lei- soprattutto- ha pagato proprio per aver voluto allontanarsi. Di lei rimangono accuse, dubbi e addirittura indifferenza.
Le donne uccise esistono in funzione del loro omicida, della controparte maschile, anche quando sono inequivocabilmente vittime. Sono uccise per motivi passionali, come se un sentimento come la passione possa mai essere sovrapposto alla violenza. Ma questa presunta passione, queste presunte avance rifiutate, le rendono colpevoli. E quindi il focus sul crimine devia e vengono elencate le loro colpe: lo ha illuso, non l’ha denunciato quando non si sentiva al sicuro, è uscita da sola, è uscita vestita in modo “inappropriato”, si è fidata e perfino- come nel recente episodio di violenza sessuale nel ragusano- è stata troppo buona. Ma la bontà non potrà mai accostarsi all’immagine imposta dai più del “gigante” che era davvero “buono”, ha perfino vegliato sul cadavere per giorni- quale magnanimità.

Lui era solo innamorato, lui era frustrato dal rifiuto, lui, lui, lui.

Soltanto giorni dopo la diffusione della notizia è stato reso noto che Elisa Pomarelli era lesbica. Una informazione che può essere sfuggita per ingenuità, ma che convenientemente omessa ha permesso il reiterarsi della narrativa che la vedeva donna e seduttrice incosciente, ignara di quale ascendente potesse avere sul povero uomo avventato che, illuso e incapace di intendere, non ha saputo accettare un rifiuto. Con questa informazione, non si può più accusarla di avergli dato speranze nel corteggiamento.

La stampa insiste a perpetuare l’uso di un linguaggio che ci vede complici negli stessi omicidi in cui siamo vittime, morte e silenti, senza la possibilità di difenderci. Lo stupro diventa un “rapporto sessuale” e l’omicidio un “omicidio passionale”.

Il linguaggio ci spoglia del nostro essere vittime, inserendoci prepotentemente in un sistema eteronormativo in cui la donna è subordinata, in questi casi addirittura sospettata, indagata, riesumata in funzione dell’uomo che era “buono” e “innamorato”. E se sei lesbica è anche peggio, perché fuggi dal sistema e ti ribelli al costrutto sociale e, perciò, non meriti di vivere.

Nel mito di Amore e Psiche la fanciulla viene presa ogni notte dall’uomo cui è stata data in sposa, in nome dei doveri coniugali e della concezione- antica? – per cui col matrimonio diventa proprietà del marito. Ha paura che in realtà il suo sposo sia un mostro. Scopre che Amore è belllissimo e ne è lieta, ma Amore è sempre stato un mostro, era il mostro che la violentava ogni notte, che l’ha acquistata come un vaso e portata via dalla casa in cui è cresciuta, senza darle alcuna prospettiva che la riguardasse se non essere sempre pronta per lui ogni sera, al buio, senza farsi domande.

Amore non è amore, la violenza e il trattamento che riserva alla donna che dice di amare non è amore, non è sua pari, è un oggetto, un abbellimento che ha visto, voluto e preteso e che, se non avesse avuto, magari avrebbe ucciso, perché se non appartiene a lui non può appartenere a nessun altro. Ricordiamo le donne come Elisa, ricordiamo il loro volto nelle foto in cui sono felici e ritratte con qualcuno che le ha amate- amate davvero- ricordiamole perché siano sempre di meno e non vengano identificate più come le vittime che hanno osato dar voce al loro libero arbitrio.