Rapsodia in Coronavirus

Religion is based primarily upon fear

Russell C.B., 1927, Why I Am Not a Christian

Paura e religione sono, da sempre, facce della stessa medaglia, “cose umane” per eccellenza. Sin dagli albori della storia siamo teatranti planati, caduti, sbattuti su di un palco che non abbiamo mai compreso appieno.
Sicché, dall’incubo dell’ignoto nasce la paura.

Già nel Paleolitico, gli uomini primitivi avevano rivolto la loro adorazione verso ciò che non comprendevano: il sole, la luna, il fulmine e finanche animali di considerevole stazza. Abbiamo dimostrato quindi, sin da subito, che ciò che non capiamo viene da noi adorato nel tentativo di attirarne i favori. Badate bene: che nessuno cada nell’inganno di considerare i nostri più lontani antenati scimmie con l’alopecia, nerboruti privi d’intelletto e terrorizzati da ogni cosa. La paura scorre nel nostro sangue e non ha nulla a che vedere con l’essere più o meno evoluti: per i greci Φόβος (Fobos), figlio di Ares e di Afrodite, era la divinizzazione della paura (φοβία).

Non me la sento di dare dei “sempliciotti” agli ellenici che arrivarono, addirittura, ad adorare la paura, non a caso figlia della violenza e della bellezza. E nemmeno ho mai creduto, né credo tuttora, che la scienza si sottragga a questi meccanismi. Il metodo scientifico, diretto erede di quella percentuale di bellezza che abita la paura, sceglie la curiosità per rispondere al terrore delle membra.

La pandemia, dal canto suo, ha avuto, il pregio di consegnare al pantheon proprio la scienza la quale, benché da molti non capita, è stata adorata fino al parossismo, fino alla varechina per le zampe degli animali domestici, fino alle aggressioni perpetrate ai danni di chiunque presentasse gli occhi a mandorla.

Insomma, il Coronavirus è riuscito là dove filosofi, teologi e finanche scienziati hanno fallito per secoli: scienza e fede hanno pronunciato i voti nuziali, hanno imparato a convivere tra un amen e una mascherina, tra una bestemmia e un applauso delle 18.00. Sono ora unite, avvinghiate, scambiandosi la superstizione, l’ignoranza, l’informazione, il fanatismo, il metodo e le ritualità. Sì, anche il rito, caposaldo del culto, è ora parte integrante del metodo. Tra sacro e profano (o scientifico, che dir si voglia) scandiamo le ventiquattr’ore della Fase 2, a nozze già celebrate.

“Il gčöd (“tagliare” gli ostacoli) era un rituale che, per i monaci tibetani, prevedeva l’isolamento in un cimitero o in un luogo lontano dalla comunità per concentrarsi nella meditazione e nella visualizzazione di immagini orrorifiche, pregne di morte e terrore, fino a non averne alcuna paura, riprendendo il modello del Buddha Siddharta tentato da Māra (il Dio della morte) nella notte dell’illuminazione.”
(Endoxa/Prospettive sul presente)

Tubi, solo immensi tubi. Ventilatori, solo immensi ventilatori. No, stiamo calmi: ancora non mi hanno portato in terapia intensiva. Eppure mi manca l’aria. Ma come cazzo può mancarmi l’aria se sono nella mia dannata stanza? Sento Laura che parla a telefono in cucina, vedo le foto del nostro matrimonio poggiate sulla mensola. Sembrano stanche pure loro. Madonna mia, aiutami tu. Rantolo come faceva mio nonno negli ultimi giorni di vita. Sto forse morendo? Ho detto niente panico, Giorgio! Ora te ne stai buono buono qui, e aspetti che passi. La vuoi rivedere Laura? Vuoi veder crescere Martina? E allora devi stare calmo, non morirai. Passerà pure questa, come la sciatica. ‘Sto maledetto virus deve rimanere in questa stanza. Solo così potrai riabbracciarle entrambe. Devi solo avere fede.

O voi che credete! Quando vi levate per la preghiera, lavatevi il volto, le mani [e gli avambracci] fino ai gomiti, passate le mani bagnate sulla testa e lavate i piedi fino alle caviglie. Se siete in stato di impurità, purificatevi.”
(Corano, Sura V. Al-Mâ’ida, La Tavola Imbandita, 5:6)

Che giornata, mamma mia che giornata. Allora, com’era? Mi sembra che l’acqua dovesse superare i 20° di temperatura. O erano 26°? Boh, vabbè la faccio bella bollente così non rischio. Mamma mia che giornata! Ecco, una bella doccia calda mi ci voleva. Sfrego bene bene le braccia… no, aspetta. Prima sfrego, di nuovo e per quaranta secondi, le mani. E quindi 1… 2… 39… 40! Quaranta secondi per le mani e ben bene pure sotto le unghie, ché lì il virus banchetta. Poi sfrego le braccia, ché le avevo scoperte, e poi le gambe. Ma che cazzo dico! Ma sono proprio scema, il viso! Però con quest’acqua bollente il viso mi si rovina, poi con che faccia mi presento dall’estetista? Vabbè che se mi becco il Coronavirus col cavolo che posso andare a farmi i trattamenti. Vada per la temperatura “magma” anche sul viso. Mamma mia che giornata… che Dio ce la mandi buona: pure farsi una doccia è ormai una sofferenza. A ma’! E non aprire l’acqua calda, porca puttana!

Il segno della croce, all’inizio della celebrazione, esprime il sigillo di Cristo su colui che sta per appartenergli e significa la grazia della redenzione che Cristo ci ha acquistata per mezzo della sua croce.
(CCC, 1235)

Quante volte ho indossato la mascherina? Non saprei neanche dirlo. Beh, per me è un rituale: le dita che accarezzano il tessuto per poi passare a giocare con i lacci dietro la testa, quella leggera pressione dei nastri, quell’odore d’ospedale, di casa. Ci si affeziona anche alla costrizioni. Quella fame d’aria che, dopo una notte in ospedale, ti assale insieme alla voglia di fare colazione per poi buttarti nel letto. Certo, tutto immaginavo nella mia vita fuorché questa mole di mascherine in giro. Ci faranno l’abitudine, ci faremo l’abitudine. Comincio il turno tra tre minuti… speriamo non muoia nessuno, non ce la farei. Non oggi. 

[In un luogo che non è luogo che è ovunque e da nessuna parte]

Come li vedi, Albert?

Direi impauriti, ma dovrei chiedere a Freud. E tu come li vedi Allah?

Yahweh dice che ce la faranno, anche stavolta. E io sono decisamente d’accordo con lui.