La gavetta dei giovani

Quante volte vi siete sentiti dire che i giovani di oggi non hanno voglia di lavorare? Io, personalmente, tante…troppe volte!
Siamo spesso dipinti come una generazione di nullafacenti, vagabondi, che non conoscono il significato della parola sacrificio e lavoro. Una generazione di ragazzi abituati ad avere tutto e subito dalla vita, seduti su di una panchina a spendere pomeriggi interi a far nulla, chiacchierando e bevendo birre di bassa qualità.

La verità è che, se da un lato, una parte dei giovani della generazione del novanta è davvero ancorato sulle panchine delle città di provincia a domandarsi che fare nella vita, dall’altro lato c’è una buona fetta della nostra generazione che lavora…ed anche sodo.

Il termine “gavetta” deriva dal latino, da gabata, ossia la scodella utilizzata dai soldati al campo per ricevere e consumare il rancio quotidiano. Nel linguaggio comune, “fare la gavetta” vuole semplicemente dire lavorare, partendo dalle mansioni modeste per poter apprendere il più possibile e risalire la scala lavorativa.

Durante i miei anni di studio, e non solo, gavetta è il termine che ho forse sentito più utilizzare: dai miei professori di liceo, dai docenti universitari, dai datori di lavoro, da chi ti esamina durante un colloquio vis a vis.

In concreto, però, è possibile quantificare gli anni di gavetta necessari prima di sentirsi lavorativamente emancipati?

In particolare, in alcuni settori lavorativi la gavetta e la possibilità di assunzione dopo i numerosi anni di studio mostrano dei dati sconcertarti.

Quelli che, dopo ben cinque anni di studio matto e disperato, trovano davanti a loro un mercato totalmente saturo, sono i giuristi. Da un recente rapporto AlmaLaurea sulla condizione lavorativa dei laureati, i laureati in giurisprudenza sono quelli che incontrano più difficoltà ad immettersi nel mondo del lavoro. Infatti, dopo cinque anni dalla laurea uno su quattro è ancora senza occupazione.

Vertono in condizioni migliori, invece, gli architetti che riescono ad ottenere un posto di lavoro post-laurea dopo poco più di 5 mesi. Si tratta di un ottimo risultato, se si considera che la media degli altri laureati è di circa 7 mesi.

I c.d. camici bianchi, invece, mostrano le più elevate performance occupazionali, con un tasso di occupazione pari al 92,4%.

Dietro questi dati positivi del settore medico, però, si nasconde una realtà ben più ostica, spesso non chiara a tutti. Diventare medico non è semplice e gli step da superare sono tanti.

Oltre agli innumerevoli anni di studio per il completamento del corso di laurea in medicina (si tratta di ben sei anni), gli aspiranti medici continuano a studiare per il corso di specializzazione, la cui durata può variare dai 2 ai 5 anni a seconda del corso scelto.  A tutto ciò si devono aggiungere anche gli eventuali anni di stallo che spesso i ragazzi neomaggiorenni si trovano a dover affrontare dopo aver tentato invano di superare i temibilissimi test di ingresso.

In particolare, però, vi è un ambito della medicina nel quale la gavetta diventa ancor più lunga. Si tratta del settore dei medici di famiglia, nel quale su di un totale di 43.985 medici, solo 234 solo under 40.

Affermarsi in tali settori diventa una lotta ad armi impari tra chi vanta decenni di esperienza e chi, invece, di esperienza non ne ha, ma ha voglia di mettere in pratica le infinite pagine studiate all’università.

Bisogna, poi, considerare anche quella parte dei camici bianchi che trascorrono giorni interi in ospedale, con dei turni massacranti, dovendo mantenere la massima lucidità in ogni singolo momento della giornata, per essere in grado di affrontare le emergenze quotidiane.

Tutti questi dati per dirvi alcune semplici cose: la gavetta la facciamo e, forse, anche più di quella che i nostri avi hanno fatto più di vent’anni fa.

Se mi guardo attorno, sono circondata da giovani laureati che hanno voglia di imparare, che lavorano sedici ore al giorno, weekend inclusi, per poi spesso essere trattati senza il minimo rispetto. Vedo giovani che non possono permettersi di sbagliare, perché ogni errore, seppur minimo, li fa scendere di un gradino in quella scivolosa scala lavorativa che cercano giorno dopo giorno di risalire.

Quindi, la prossima volta che vorrete criticare i giovani di oggi, guardatevi attorno: sicuramente incrocerete gli occhi di un ragazzo appena uscito dal lavoro, stanchi ma pieni di voglia di fare.


Articolo già pubblicato sul Quotidiano del Sud – l’Altravoce dell’Italia di lunedì 02/03/2020