LA COMICITÀ DEL MALE / Da Chaplin a “Lui è tornato”, cosa resterebbe di Hitler se la Storia la facesse il cinema

Una delle più grandi scoperte del Novecento l’ha fatta Hannah Arendt, che diceva: quando pensate ai nazisti non figurateveli come dei satanisti geniali, perché più che altro sono degli imbecilli. Ovviamente sto sintetizzando (male) uno dei capolavori della filosofia contemporanea, ma il concetto è questo, che i cattivi sono quasi sempre lontani dall’immagine mitica che ne abbiamo e che loro stessi vogliono suggerirci. Più è eclatante la loro violenza, più è probabile che faccia perno su una certa limitatezza, o inconsapevolezza, nel recepire la gravità reale delle cose. Non è una consolazione, anzi, perché il fatto che il male sia banale e forse casuale priva ogni gesto crudele della possibilità di una ragione (vedi strategie, ideologie, piani malvagi ecc.), ma tant’è: per la filosofa tedesca, Eichmann e quindi Hitler non sono propriamente Darth Vader e il dottor Moriarty, ma più una cosa tipo il Team Rocket.
La Arendt lo ha scoperto nei primi anni Sessanta, dopo aver seguito il processo ad Adolf Eichmann avvenuto a Gerusalemme nel 1961, poi raccontato nel saggio Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil (in Italia titolo e sottotitolo si invertono) del ’63. Eppure, prima che l’idiozia dietro il Nazismo fosse materia da saggio, se n’era già occupato il cinema: a gennaio del 1940, qualche mese prima dell’Operazione Weserübung, esce Il Grande Dittatore, capolavoro di Charlie Chaplin. E’ la prima apparizione di Hitler al cinema, anche se qui si chiama Adenoyd Hynkel e comanda sulla Tomainia anziché sulla Germania.

Chaplin, che qui è regista, sceneggiatore, attore, produttore e compositore, anticipa tutte le declinazioni di un certo cinema sugli orrori della guerra che lo seguirà nel Novecento, primo fra tutti lo scambio d’identità (dai fini morali, dimostrativi) tra buono e cattivo, povero e ricco, vittima e aguzzino, privato e pubblico. Un giochetto sociale divertente e dal risultato limpido, clamoroso, archetipico: lo hanno imitato con un gusto morbosetto per la disperazione fino al 2008, anno de Il bambino con il pigiama a righe. Charlot, qui barbiere ebreo, viene scambiato per il Führer. E, nei suoi panni, pronuncia un discorso all’umanità che segna idealmente la morte dell’ideologia dittatoriale.

E’ un discorso sull’ordine, sulla trasparenza e sulla ragionevolezza. Chaplin ci suggerisce due cose: la prima, che la satira è finzione a metà, perché il potere dispotico è davvero bambinesco, macchiettistico, inadatto alla gestione delle cose; la seconda, che nulla di serio può dipendere da uomini troppo imitabili, perculabili e adatti agli sberleffi. In tanti hanno confermato la sua versione. Vogliamo vivere! Di Ernst Lubitsch, del 1941 e il suo remake Essere o non essere, diretto da Alan Jhonson nel 1983, sono addirittura meta-satira, nel senso che raccontano la messa in scena di uno spettacolo comico sul nazismo prontamente bloccato dalla censura, alla vigilia dell’invasione della Polonia. Stesso discorso, o quasi, per il triplo capolavoro di Mel Brooks Per favore non toccate le vecchiette, che ha dato vita al musical più premiato della storia dei Tony Awards, The Producers, che a sua volta è diventato un bel film nel 2005: tutta la vicenda ruota attorno a una pièce, sulla carta orrenda, che si chiama Primavera per Hitler, scritta da un nostalgico del Terzo Reich. Il risultato è pura poesia.

Seguono il Monty Python’s Flying Circus, in cui compare un ridicolo Mr. Hitler interpretato da John Cleese, e il film di Dani Levy del 2007, Mein Führer – La veramente vera verità su Adolf Hitler, una versione teuto-patetica del Discorso del Re. Nota bene: in tutti questi film, Hitler la sua claque e l’intera genesi del loro piano geniale appaiono, in termini di credibilità, un gradino sotto i Looney Tunes. Non stupisce, quindi, il successo di Er ist wieder da – Lui è tornato, appena uscito al cinema e già campione d’incassi in Germania.

Il regista si chiama David Wnendt e ha già diretto la commedia Wetlands (2013), praticamente una biografia genitale: Nymphomaniac, se si tralascia l’erotismo, al confronto sembra Ugly Betty. Per l’adattamento del libro di Timur Vermes (in Italia edito da Bompiani che nel 2013 mise su un battage pubblicitario spaventoso) Wnendt ha pensato a una specie di Borat, mezzo fitcion mezzo candid camera, con l’attore Oliver Masucci che, tra scene previste e altre improvvisate, interagisce coi tedeschi di oggi nei panni del Führer. La storia, in piena sospensione d’incredulità, è semplice: Hitler si risveglia nella Berlino di oggi e, scambiato per un imitatore satirico e geniale, diventa un beniamino del pubblico televisivo e di Youtube. I suoi discorsi deliranti attraggono il gusto delle coscienze critiche del paese, che scambiano i commenti razzisti per battute sarcastiche contro la destra xenofoba. Ironia della sorte, i neonazisti cominciano a odiarlo e decidono di farlo fuori.
Lui è tornato conferma, a settantacinque anni di distanza dal Grande Dittatore, che vale il pensiero di Chaplin sul rapporto tra satira e politica. Ma non solo, è il suggello di un fenomeno strano, crudele e curioso: Hitler, il più grande cattivo del Novecento e forse di tutti i tempi, sta diventando per la cultura di massa una specie di Pulcinella, una maschera. Anzi, meglio: un coglione. Perché non c’è niente di plausibile, nel suo male, e l’unico modo per raccontarlo è la commedia iperbolica, denigratoria. Che sia lo sfogo di una censura troppo lunga o una strada obbligata del moderno modo di raccontare il potere, il dato è questo.
E se il futuro somigliasse a quello di Wall-E e della Storia non rimanesse che qualche filmato? Il Terzo Reich passerebbe per un esercito di personaggi d’invenzione, una parodia di cattiverie incredibili. Insomma, chi potrebbe credere, in un domani senza libri di storia, ai ciuffi unti, agli esperimenti di eugenetica, ai riti satanici, al cinema di propaganda, alla ricerca del Santo Graal, alle riprese fatte dal basso per sembrare più alti? E oltre la Germania, chi mai crederebbe che l’Italia ha avuto un dittatore che sciava a petto nudo e la Libia una falsa costituzione, sottile che nemmeno Erri De Luca? Chi crederebbe alle autocrazie del nostro tempo?
Nessuno. E non è male, questa prospettiva d’incredulità: una tardiva, ma piacevole, rivincita sulla propaganda.