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La bellezza contro la mafia

«È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore». Queste sono parole pronunciate dal giornalista siciliano Giuseppe “Peppino” Impastato, ucciso dalla mafia il 9 maggio del 1978, o meglio nella notte tra l’8 e il 9 maggio, alla sola età di 30 anni. Peppino Impastato, infatti, nacque a Cinisi, in provincia di Palermo, il 5 gennaio del 1948. In questo paese lottò per anni contro il potere occulto e dannoso che da troppo tempo imperversava e, dobbiamo dire purtroppo, imperversa ancora oggi nella nostra bella Italia. Sarebbe troppo facile e, addirittura, ipocrita confinare questo problema al solo meridione d’Italia, poiché, come sappiamo, la mafia ha molti dei suoi centri di potere economico e finanziario radicati in tutto il Paese. Peppino rappresenta, per molte persone come me, un eroe, ucciso solo perché ha cercato di alzare la testa e denunciare un modus operandi che stava deturpando, non solo in senso visivo, la bellezza delle nostre terre. Un giovane siciliano che decise di rompere gli schemi, discendente da famiglia mafiosa: basti pensare che il cognato del padre era il boss di Cinisi ed il padre Luigi era stato condannato al confino. Si oppose a questo status quo, provando con le sue parole e le sue azioni a smuovere qualche coscienza e a tentare un riscatto per la sua bella e amata terra. Il 7 maggio 1978 Peppino Impastato tenne a Cinisi il suo ultimo comizio pubblico. Si era candidato alle elezioni comunali del piccolo paese con le liste di Democrazia Proletaria, scagliandosi per l’ennesima volta contro la borghesia mafiosa che infestava il suo paese natio. La sera dell’8 maggio venne rapito e “suicidato”. Sì, Peppino Impastato venne “suicidato”, perché chi lo uccise cercò di far passare quell’infame gesto per suicidio, abbandonando  il suo corpo avvolto nel tritolo lungo la linea ferroviaria Cinisi – Palermo. Inoltre, gli esecutori del delitto scrissero un biglietto in cui Peppino annunciava il desiderio di uccidersi. Tentarono anche di simulare un attentato terroristico ai danni di un’importante infrastruttura siciliana. Niente di più falso. Inizialmente, forze dell’ordine, magistratura e opinione pubblica, abilmente guidata a mezzo stampa, avallarono in maniera collusa questa ipotesi. Cinisi, però, tributò a Peppino un grande e sentito ringraziamento, scrivendo, ugualmente, il suo nome su molte schede elettorali. Peppino sapeva che in un modo o nell’altro avrebbe perso quelle elezioni. Decise comunque di metterci la faccia e di provare a controllare dall’interno chi avrebbe vinto. Le previsioni di voto, o meglio i sondaggi, erano alquanto semplici da fare. Troppo spesso è facile scegliere chi è più potente, chi sembra in grado di poter dare anche solo una briciola; chi, anche riconoscendo un nostro diritto, sembra ci stia facendo un “favore”. Grazie alla lotte e al coraggio di Giovanni Impastato, fratello di Peppino, e di sua madre Felicia Bartolotta, venne riconosciuta nel 1984 la matrice mafiosa dell’uccisione del giornalista. Il Tribunale di Palermo, infatti, emise la sentenza firmata da Antonino Caponnetto, su indicazione del giudice Rocco Chinnici, ideatore del celeberrimo pool antimafia di Palermo e anche lui vittima eccellente della più grande piaga che tarpa le ali a questi nostri territori. In essa si decretò la falsità riguardante il suicidio del giovane e si riconobbe la matrice mafiosa, sebbene attribuendo il compimento del delitto a ignoti. Dopo varie vicissitudini giuridiche e altrettante peripezie e vicende poco chiare, nel 1994 la madre di Peppino, insieme al “Centro siciliano di documentazione Peppino Impastato”, ottenne finalmente la riapertura del caso e l’incriminazione di Gaetano Badalamenti, boss dell’epoca già condannato a 45 anni di carcere per traffico di droga negli USA. Nel 1997, fu emesso l’ordine di cattura internazionale per lo stesso boss, identificato come mandante del delitto, eseguito da Vito Palazzolo. Nel marzo 2001, l’esecutore venne condannato dalla Corte d’Assise a 30 anni di reclusione. L’anno successivo venne comminato l’ergastolo a Gaetano Badalamenti. Lo stesso Badalamenti contro cui Peppino si era più volte scagliato attraverso Radio Aut (Radio Libera Autofinanziata) definendolo più volte “Tano seduto” e denunciandone ripetutamente i traffici illeciti e gli sporchi affari. Sempre a Badalamenti si fa riferimento nel film di Marco Tullio Giordana “I Cento Passi”, dedicato alla vita del giornalista siciliano, poiché 100 passi è la distanza che separa la casa natale di Peppino da quella del boss. Sempre “I Cento Passi” è il nome della canzone che al film ha fatto da colonna sonora cantata dal gruppo “Modena City Ramblers”. Memorabile è la scena del film in cui Peppino percorre questi famosi 100 passi insieme al fratello e lo incita alla ribellione contro la mafia, che Peppino definisce “una montagna di merda”, vero e proprio giogo per le generazioni che tentano di spiccare il volo. Un sistema capestro, che pur di salvare i suoi tanto squallidi quanto loschi affari, calpesta i sogni di chiunque; e chi prova a ribellarsi e a dire di no, finisce come Peppino Impastato. Un sistema mafioso che infonde sicurezza tra i suoi adepti, come dice nel film un collega di Peppino alla radio, mettendoli al riparo da ogni tipo di preoccupazione, a patto di piegare la testa e asservirsi per sempre. Una sorta di scambio tra sicurezza, talvolta addirittura protezione, e libertà. Fu molto più comodo dar credito alle voci che volevano Peppino Impastato, che lottava per i diritti suoi e della sua terra, d’improvviso suicida o peggio ancora morto in un attentato andato a male, piuttosto che dar fastidio a qualcuno. Così come sarebbe stato più facile per questo ragazzo girare la testa dall’altra parte mentre il suo futuro e i suoi sogni di legalità venivano calpestati per gli affari di qualcuno, magari ottenendo un vantaggio da questa connivenza. L’arma scelta da Peppino Impastato e dai suoi compagni alla radio è un’arma insolita per quegli ambienti, ma non per questo meno potente di altre, ovvero la bellezza. La bellezza: termine al quale risulta quanto mai difficile attribuire una precisa definizione, secondo il giornalista, “strumento più che mai efficace contro la rassegnazione, la paura e l’omertà”. Questi termini hanno il denominatore comune con la connivenza; e l’essere conniventi ed omertosi rafforza il potere mafioso. “La mafia uccide, il silenzio pure” è un’altra delle più celebri frasi di questo rivoluzionario del nostro secolo. La bellezza, secondo Peppino, è il contrario dell’assuefazione, dell’abituarsi al fatto che le cose vadano in un certo modo perché è sempre stato così. Se si conosce il bello delle cose, lo si ricerca sempre e questa continua ricerca aumenta la curiosità e la conoscenza e allora ci si pone delle domande sulle questioni della vita quotidiana, e si scoprono delle realtà che talvolta avremmo preferito non conoscere. E a questo punto cosa si fa? Ci si gira dall’altra parte facendo finta che vada tutto bene o si affrontano e si denunciano queste situazioni? Rileggendo la storia di Peppino Impastato e delle altre, troppo numerose, vittime di mafia, mi viene in mente la poesia di Pablo Neruda “Lentamente muore” che recita: “Lentamente muore, chi non capovolge mai il tavolo, chi non rischia la certezza per l’incertezza per inseguire un sogno” e molto spesso quello che viene visto come un sogno in realtà non è nient’altro che un diritto. Sostanzialmente, questo è l’insegnamento che Peppino Impastato ci lascia: la grandezza di un ideale e la ricerca della bellezza richiedono la fuoriuscita dalla “comfort zone” che ci offrono i poteri forti, per poter dire quantomeno di aver vissuto liberamente e di aver tentato di ridare splendore e bellezza a una terra che oggi più che mai ne ha bisogno.