Father and son
Ph. Camilla Scarpa

Il razzismo si cura viaggiando

Sono le 15:10 del 16 luglio e la Frecciabianca su cui sto viaggiando si accinge a fare la seconda sosta di questo viaggio presso la stazione di Napoli Centrale.
E’ sabato pomeriggio ed il treno è stracolmo di gente.
Ho una piccola perversione da confessare: quando viaggio da sola mi piace osservare i miei vicini e immaginare le loro vite e spesso, se capita, sfamo la mia curiosità con conversazioni assurde e la gente più strana.
Davanti a me vedo una coppia di anziani che mi sembra si amino da una vita, sento squillare improvvisamente un telefono, classica suoneria da Nokia3310 – “Ciao Sofi, arriveremo in serata. Nonno dormicchia ma prima di partire mi ha detto che non vede l’ora di abbracciarti”.
La vecchietta sorride notando i miei occhi che sanno di nostalgia e mi dice “Signorì, anche voi state tornando a casa? Sa, mio figlio è andato a lavorare vicino Milano, e quest’anno non ha le ferie. Noi lo vediamo poco, solo nelle feste comandate, e mia nuora non ha trovato lavoro al Nord ed è stata costretta a rimanere in Calabria con mia nipote. A noi Franco manca tanto, ma il lavoro è il lavoro e qualcuno deve mandare avanti la baracca. Però ogni tanto facciamo una “fuitina” per abbracciarlo e per “salirgli due caciocavalli”, perché, si sa, il ragazzo mi muore di fame lì. “
 Non faccio in tempo a rispondere che il marito mezzo addormentato – stringendo forte la mano della donna – inveisce “Lucì, non disturbare la signorina! Scusate signorì, mia moglie sono 56 anni che non riesce a tenere la bocca chiusa”. E da lì ho scoperto che Mario e Lucia sono dei semplici calabresi che hanno vissuto e continuano a vivere lo strazio dell’emigrazione al Nord, che soffrono la lontananza del figlio e sperano sempre che questi possa fare ritorno alla casa paterna.
Nel mentre arriviamo a Napoli. Si aprono le porte e noi del vagone 7 vediamo entrare una ragazza di colore, di cui non saprò mai il nome, vestita di bianco e con un sorriso così puro di cui solo gli africani a volte sono capaci.
La nuova compagna di viaggio cerca di farsi largo tra gli sguardi scettici e un po’ spaventati dei miei vicini e con garbo si accomoda al suo posto, mostrando al controllore il suo biglietto obliterato. “Lucì, tenati a borsa ca c’è ra nivura” – incalza Mario.
E come Mario, tanti altri passeggeri scrutano l’ultima arrivata come se fosse un pericolo o, peggio, un nemico. Kelie – perché mi piace chiamarla così – è una ragazza normale, proprio come me. Ha tanti capelli neri, proprio come me. Ha una borsa e un biglietto pagato, proprio come me. Ha gli occhi un po’ tristi, proprio come me: è lontana da casa sua, è in un paese che non l’accetta, ma che lei sente in parte suo.
Da un vocale farfugliato intuisco che sta raggiungendo qualcuno, forse un amico, un familiare, un compagno. E’ vero, non capisco la sua lingua, ma io e la mia nuova amica ci scambiamo uno sguardo che è un abbraccio, ed è come se riuscissimo a comunicare, senza più barriere. 
Finalmente Kelie trova un alleato e da un mio semplice sorriso vedo i miei vicini di posto tranquillizzarsi e capire che non c’è nessun nemico accanto a loro. Lucia apre una busta da cui estrae un bozzo di carta stagnola e ci offre degli ottimi panini: “Signorì, non so parlarci con questa. Dille se ne vuole uno, ne ho fatti troppi, anche stavolta”. Mi avvicino a Kelie e accenno in inglese elementare “Do you want some?
Io riaccendo Spotify e scruto l’orizzonte e penso ai tanti viaggi che ho fatto, alle persone che ho incontrato, scontrato, conosciuto o che avrei potuto conoscere: siamo milioni di persone sul pianeta e, nonostante diversi colori della pelle e diversi codici di linguaggio, siamo tutti uguali.
La chiave per sconfiggere la paura del diverso, come hanno fatto in quell’afoso luglio i miei amici, è conoscere. Conoscere l’altro, conoscere l’altra faccia della terra, conoscere il diverso, conoscere prima di giudicare, conoscere prima di avere paura.
Mia mamma spesso si lamenta che viaggio troppo, e spesso si preoccupa per me perché viaggio sola e mi cimento in tante “avventure” che sembrano pericolose solo perché lontane dal nostro modo di immaginare la normalità. Ma ciò che non è normale a casa mia può esserlo dall’altra parte del mondo. E cosa c’è di terrificante in questo? Il mondo intero mi affascina e dovrebbe essere così per tutti, soprattutto per noi giovani.
La paura del diverso è una barriera che ci impedisce di scoprire le meraviglie che abbiamo sotto gli occhi. La paura dello straniero è una scusa per non accettare che spesso siamo noi i primi nemici di noi stessi, proprio a casa nostra.
Ho letto qualche giorno fa una intervista di Paolo Rumiz, in cui dichiarava che “in realtà non si viaggia per capire il mondo, ma per capire sé stessi. È un continuo lavoro di superamento dei limiti, dei muri interiori, dei miserabili pregiudizi costruiti con i libri e la propria cultura. Viaggiando trovi sorprese che ti spiazzano e ribaltano i luoghi comuni”.
Solo viaggiando potremo interfacciarci con il nostro io più profondo così da poter comprendere che non è un nero, un paio di occhi a mandorla o chi non ci somiglia che ci ruba la tranquillità, il lavoro, la sicurezza. Anzi, è proprio con l’accoglienza, il confronto, l’aiuto reciproco fra gli stati che si può sopperire alle più grandi emergenze sociali.
Perché è viaggiare il segreto per superare pregiudizi e luoghi comuni.
A Mario e Lucia è bastato vedere che qualcuno si fidasse della nera vestita di bianco e anche loro si sono sentiti al sicuro.
E’ tutta questione di coscienze e consapevolezze: se tutti viaggiassimo e ci immergessimo in altri contesti, per curiosità o per necessità, ci renderemmo conto che tutti siamo degli stranieri, spesso anche semplicemente uscendo dal paese in cui siamo nati.  
Non esistono stranieri, solo gente che viaggia: Kelie è una straniera perché è nera, Franco è uno straniero perché è un calabrese emigrato al Nord, e io sono una straniera perché vado continuamente alla scoperta nel nuovo.
E forse sei uno straniero anche tu: ma io di te non ho paura.