‘I giovani devono viaggiare’ – Capitolo 1: perché studiare fuori sede

“Secondo me i giovani devono partire. Devono andar via, ma per curiosità non per disperazione. E poi devono tornare. I giovani devono andare, un po’ come ho fatto io: sono sempre partito e sempre tornato. E devono andare per capire com’è il resto del mondo, ma anche per un’altra cosa, ancora più importante: per capire se stessi […].”

Renzo Piano


Prima o poi, per tutti arriva il momento di mettere sulla bilancia le proprie paure e le proprie ambizioni e decidere quale percorso di vita intraprendere.

Quando finalmente si consegue il diploma (non per nulla anche definito “maturità”) si aprono davanti a noi molteplici opportunità: continuare gli studi o iniziare a lavorare? Rimanere nella propria città o trasferirsi fuori sede?

Trasferirsi: studiare fuori sede

L’attitudine a “migrare” verso un’altra città, se non addirittura verso un altro paese, è nel nostro DNA dai tempi dell’Unità d’Italia. Nonostante questo fenomeno sembrava fosse destinato ad aumentare esponenzialmente negli anni, in tempi recenti sembra invece non coinvolgere la stessa considerevole proporzione di popolazione delle ondate migratorie registrate nel XIX e XX secolo. E allora cosa è successo ultimamente, che ha trattenuto i giovani nelle loro case, al sicuro delle proprie abitudini? Siamo forse meno coraggiosi dei nostri avi? Meno ambiziosi, o meno sicuri di noi stessi? O siamo ormai così disillusi e disincantati dal mondo che ci circonda, da non avere neanche la curiosità di metterci alla prova in un habitat diverso dal solito?

Sicuramente scegliere di “lasciare il nido” per partire ed affrontare la vita da fuori sede è un passo coraggioso: non pensate che sia facile, di punto in bianco, salire su un aereo, salutare la propria famiglia e i propri affetti, e dopo qualche ora andare a dormire in un letto che non è il proprio, con la consapevolezza che, da quel momento in poi, quelle quattro mura (il più delle volte non molto confortevoli) saranno “casa”.

I primi giorni.

I primi momenti sono duri; capire da un giorno all’altro che si ha la necessità di fare da soli tutto quello di cui prima magari si occupava qualcun altro al nostro posto: fare la spesa, cucinare, fare le pulizie, lavare i piatti e la biancheria, asciugarla e poi anche stirarla, saldare le bollette, assicurarsi di chiudere sempre la porta, buttare la spazzatura (fare la raccolta differenziata!), ricordarsi dove si è riposto il cacciavite per quelle volte in cui sta per crollare una mensola, non farsi abbindolare da venditori che cercano di farti firmare il vantaggiosissimo contratto per diventare gold member del famosissimo club (cosa purtroppo realmente accaduta ad una ignara matricola come me), e molto altro ancora!

Vi assicuro che all’inizio della mia avventura, per ingenuità’ e per incoscienza, non pensavo nemmeno a quante potessero essere le insidie di una città del tutto nuova.

Orgogliosa siciliana, all’età di 17 anni mi sono infatti trasferita fuori sede a Milano, ben più grande ed internazionale di Palermo, in un piccolo bilocale, senza coinquilini, e senza conoscere nessuno. Poi ho cominciato a frequentare l’università, e a poco a poco ho conosciuto tantissimi ragazzi e ragazze che come me avevano lasciato casa per andare a vivere da soli.
Insomma, eravamo tutti sulla stessa barca!

Ci si capiva se, quando arrivava il week-end, si aveva voglia di organizzare un aperitivo insieme per non passare l’ennesima serata davanti alla tv a cercare di far funzionare il decoder. Ci si capiva se, ad un certo punto, qualcuno chiedeva “Mi accompagneresti a fare un giro per negozi?”, o, tra i ragazzi, “Perché non organizziamo una partita di calcetto?”. Perché ognuno di noi in fondo non aspettava altro che questo: compagnia.

Ed è stato così che, in breve tempo, tutti abbiamo ristabilito in questa nuova città, prima tanto ostile, le nostre abitudini: il supermercato preferito, il “solito” cinema, il PR di fiducia, la biblioteca, l’amico/a del cuore, la pizzeria che ci fa sentire a casa, la strada più corta per arrivare all’università, il negozio di scarpe con i prezzi migliori. E credetemi, vi accorgerete quasi subito di appartenere a questo microcosmo molto più di quanto non vi sentivate parte di quello della “vostra” città.

Mettersi in gioco.

Studiare fuori sede vuol dire mettersi alla prova. Mettersi alla prova non solo nelle proprie doti organizzative e “casalinghe”, ma anche nella capacità di relazionarsi con gli altri:si viene a contatto con gente proveniente da tutta l’Italia, o addirittura da tutto il mondo. Si ha a che fare con persone con modi di pensare, di fare, di vivere e perfino di parlare, diversi.
E mettersi alla prova implica raggiungere una maggiore maturità. Cosa significa? Crescita. Personale, culturale, formativa. Come avviene? Con la scoperta, di se stessi e degli altri. Dei propri limiti e delle proprie attitudini.

Ma c’è anche un altro risvolto in tutto questo, a mio parere altrettanto positivo e formativo. Il ritorno a casa.

Ogni volta che torno a casa in Sicilia sento dentro di me due forti sentimenti contrastanti. Da una parte, incredibile a dirsi, sento la mancanza della grigia ed inquinata Milano, per il centro commerciale sotto casa aperto a tutte le ore del giorno, per i mezzi pubblici che funzionano e per le aule studio della Bocconi, per l’aperitivo sui Navigli, la serata del mercoledì all’Old Fashion e per lo shopping in via Vittorio Emanuele. Ma soprattutto per la mia “famiglia” da fuori sede milanese, gli amici che ho scelto per condividere la mia vita lì. Dall’altra parte però, ritrovo la mia vera famiglia, i pranzi della domenica, il panificio sotto casa che mi fa credito quando non ho spiccioli nel portafogli, il portinaio che mi conosce da quando sono nata, gli amici di una vita, che sono cresciuti con me e con cui riderò sempre a crepapelle; riscopro quel sole e quel mare a cui mi ero tanto abituata negli anni, e di cui non avevo mai apprezzato appieno bellezza ed unicità; ritorno ad amalgamarmi nel tipico lento scorrere delle giornate al Sud. Solo con l’allontanamento comprendi cosa realmente ti piace e ti manca della tua terra natia.

Dunque?

Insomma, chi parte da fuori sede per vivere in un’altra città appartiene a due universi, conosce due modi di descrivere la vita completamente diversi, e questo non può che essere fonte di arricchimento personale. Senza contare, ovviamente, che chi si trasferisce, generalmente, lo fa con l’intenzione di trovare sistemi educativi, lavorativi, politici, culturali e sociali, differenti (o migliori) da quelli di provenienza. Chi parte e ritorna diventa quindi anche termine di paragone e input di idee nei confronti di chi resta, in modo da stimolare dapprima una conoscenza, poi una crescita positiva della società.

Ma allora, se abbiamo detto che gli ostacoli iniziali del trasferimento sono, non solo superabili, ma anche pienamente bilanciati da consistenti vantaggi, cosa può esserci ancora a trattenere i giovani d’oggi dall’effettuare la scelta di studiare fuori sede?

Molti, diciamolo pure, temono che l’allontanamento possa rovinare i rapporti umani con chi resta nella città natale, che siano di amicizia o di amore.
Bene, la mia risposta al riguardo è: in generale, NO.

Parlando dei legami di amicizia, la lontananza tende piuttosto a fortificare quelli veri e profondi e ad affievolire, se non addirittura a far scomparire, quelli passeggeri e poco sinceri. Vi posso assicurare che la mia migliore amica è tuttora la mia migliore amica, che ci sono amici che non vedo o sento quasi mai, certo, ma che considero sempre i più cari che ho. E lo stesso vale per i legami d’amore. Tuttavia, in questo caso, ammetto che molto dipende dalla personalità di ciascuno. Ma, nonostante le esperienze della vita mi abbiano portato in posti molto diversi, non c’è stato continente, fuso orario o lingua, che mi abbia mai impedito di fare una telefonata o mandare un messaggio alle persone a cui tenevo.

Dunque se ancora temete di soffrire il cambiamento, di non resistere alla mancanza di casa e delle vostre abitudini, vi dico questo: negli ultimi anni ho vissuto in quattro città diverse, cambiando quattro case, tre paesi e due continenti. Ho montato armadi, letti e tavolini, aggiustato rubinetti e finestre, acquistato pentole, piatti e posate di scarsa qualità, e tutte le volte ho pensato che mai nessun’altra casa avrebbe potuto rimpiazzare la precedente.

Poi ho capito: il cuore mette radici ovunque.