Giorgio Fontana – Morte di un uomo felice

Di Davide Nappi

Giorgio Fontana – Morte di un uomo felice

Eccezioni sempre, errori mai.
Una frase, quattro parole, un motto o anche qualcosa di meno, forse un intercalare che odora di fermezza ma il cui senso intriga perfino lui.
Anche perché lui, Giacomo Colnaghi, è proprio questo : ha la fermezza di facciata acquisita grazie alla sua brillante carriera da magistrato, uomo dello Stato, ma sotto l’habitus sociale nasconde un’incertezza che sconfina – in profondità – in una curiosità insaziabile.

La cornice è una Milano stanca, fiaccata da lotte intestine tra rossi e neri, comunisti e fascisti, pericolosi rivoluzionari e oppressori; una Milano che Colnaghi ammira soprattutto a tarda sera, o la notte, o la mattina presto, durante il tragitto tra il proprio monolocale in affitto e il Palazzo di Giustizia, sempre in bicicletta.
Amante delle atmosfere a metà e degli orari incerti, si trova spesso in un bar, lungo la strada, in cui osserva, ascolta e vive racconti passati e presenti di gente comune che, come sempre, non ha nulla di comune.

Fervente cattolico, è sposato, ha due figli, ma la sua vita familiare è ridotta a fugaci incroci della durata massima di un weekend , quando il magistrato riesce a liberarsi dagli impegni lavorativi per tornare a Saronno, tra i venerdì e i lunedì di lavoro obbligatorio.
Ogni tanto passa a trovare la madre, rimasta vedova di Ernesto Colnaghi, partigiano, la cui storia Giacomo insegue da sempre e che si alterna alla sua nelle pagine incalzanti ma mai confuse di Fontana.

Coordinando un trio di inquirenti, indaga senza sosta sull’omicidio irrisolto di un importante democristiano ad opera delle brigate rosse, stemperando la tensione in pomeriggi liberi con i suoi due migliori amici, tanto diversi da essere compatibili in ruoli differenti della sua vita.
Ma la sua non è semplice accademia, non è semplice lavoro. Non si sazia di mettere dietro le sbarre terroristi e assassini, vuole anche capire le cause, indagare gli stati d’animo, instaurare un filo d’empatia anche difronte ai più incalliti, anche a costo di scendere a compromessi col terrore e l’ansia di un costante possibile agguato alla propria vita.
Perché Giacomo Colnaghi è un idealista che ha capito che l’odio non si vince con l’odio, che non c’è giustizia in nessuna delle due parti, che, da sempre, è solo vendetta che chiama vendetta.

E’ la maestria di Fontana, rivivere la fase più tarda del terrorismo italiano immergendosi profondamente in situazioni e ambienti, in idee ed ideologie, in paesaggi grigi e tramonti freschi dipinti con colori vividi e semplici. Fotografa una realtà di per sé confusa attraverso gli occhi attenti di chi non si azzarda a giudicare, pur avendone la possibilità, ma si sforza di penetrare le menti e le anime dei personaggi per arrivare a capire da che parte stia la Giustizia, nel caso essa prenda – o abbia preso mai – una parte.
Atmosfere cupe, morti e sparatorie vengono stemperate da speranze di innamorati e amori familiari in una danza equilibrata che non ha neanche una sbavatura, non un’incrinatura né un passo di troppo.
Neanche uno.
Eccezioni sempre, errori mai.