ESSERE ROBIN WRIGHT

The Congress di Ari Folman: collage-capolavoro su memoria e spersonalizzazione

Di Nicola H. Cosentino

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Chissà cosa ne pensa Andy Serkis, che ha basato la sua straordinaria carriera sul prestito di faccia e movenze a personaggi (Gollum, King Kong, lo scimpanzé Ceasar de Il Pianeta delle Scimmie) fatti al computer, come fantascientificamente si diceva qualche tempo fa. Adesso sappiamo che questa tecnica di trasposizione digitale si chiama Performance Capture, e non è altro che «un gruppo di cineprese usate per riprendere l’attore mentre recita». Ordinaria amministrazione secondo lo stesso Serkis, che alla PerfCapt ha dedicato The Imaginarium, uno studio specializzato nel perfezionamento del cinema (ma anche dello show live, come il circo) del futuro. Ci aspetta un mondo di avatar.

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In controtendenza a questa deriva naturale che ci porterà a vedere Pamela Villoresi versione ologramma celeste all’Ambra Jovinelli, si pone The Congress, opera di Ari Folman basata sul Congresso di futurologia di Stanisław Lem e costruito sul volto bellissimo e la solida caratura attoriale della Robin Wright che sullo schermo faceva sognare Forrest Gump e dietro le quinte sposava Sean Penn prendendone, per buona parte della sua carriera, il cognome. L’attrice perfetta per un film su un’attrice, una delle poche americane che ha recitato senza clamori e senza vergognose eclissi di carriera, nota ma non troppo, certamente non star, di illuminante e mai contraffatta bellezza. Nella pellicola è se stessa, o almeno una versione di Robin Wright che vive in un desolante deserto recintato con due figli, di cui uno, Aaron, gravemente malato. Per curarlo decide di cedere la sua immagina alla Miramount, fittizia casa di produzione a metà fra la Miramax e la Paramount, che ne farà un avatar immortale da usare a discrezione delle esigenze di mercato. L’impegnata Robin Wright diventa così una pacchiana eroina un po’ Rambo un po’ Tomb Raider, e mentre i grafici lavorano al posto suo snaturandone l’indole ma centuplicandone la popolarità commerciale lei guadagna il mare di soldi necessario a migliorare le condizioni del figlio. Il Congresso del titolo si tiene qualche anno dopo, e la vede ospite d’onore per conto della Miramount come attrice-simbolo del cinema del futuro, promoter del secondo step del percorso cominciato con la vendita della sua immagine: il versatile avatar di Robin Wright cesserà di essere attrice e comincerà ad essere esperienza di vita attraverso bibite e pillole alimentari. Lo spettatore, quindi, ormai stufo di guardare i propri idoli, potrà provare ad essere uno di loro. E la spersonalizzazione sarà completa e perfetta. Al Congresso di futurologia qualcosa va storto, però, e Robin Wright, anziana e se stessa in un mondo di falsi giovani che vivono nei corpi di chi vorrebbero essere (un tripudio di Marilyn, Gesù, Elvis) comincia un viaggio nella distopia delle identità abbandonate.

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Ora, The Congress è un film solo apparentemente complesso ed in realtà di facile fruizione, con l’unica singolarità di alternare live motion ed animazione classica (anche piuttosto retrò) in un contesto che non lascia spazio al gusto per il passato. Anzi, al passato proprio. Ma le controversie, in quest’opera, costituiscono la rete di base necessaria a disegnare la deriva infelice di una società senza memoria e senza pazienza. Folman racconta, escludendo coerentemente al tema l’uso di tecnologie, il cancro dell’innovazione senza freni, che non sostituirà – come credeva Asimov – l’uomo con la macchina, ma ancora peggio cancellerà l’identità a favore del concetto. Il risultato è un reale animato da finzioni: i personaggi al posto delle persone, le icone al posto dei nomi e dei cognomi, la felicità sfrenata abbracciata per direttissima, senza il filtro della coscienza. Un mondo dall’aspetto migliore, ma inospitale per chi tiene a se stesso, per l’amore pesante e per la responsabilità. Un mondo nemico all’impegno e, con tutto il brutto che comporta, alla verità. Non è un caso che gli occhi scelti da Folman per raccontarci questa distopia siano quelli bellissimi di un’attrice, che della spersonalizzazione fa una ragione di vita. Come non è un caso che per trovare inaccettabile lo spettacolare e felicissimo mondo post-Congresso sia necessario immedesimarsi in una madre, forse l’ultima rimasta, detentrice naturale della memoria del cuore, la sola impossibile da scalfire.

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Il film, uscito da poche settimane anche in Italia, è un rarissimo esempio di fantascienza che non si sforza di essere geniale. Prende da Apres los ojos (quindi Vanilla Sky), Matrix ed Essere John Malkovich il tanto necessario ad esistere per raccontare (benissimo) tutt’altro. L’esclusività dei propri punti di vista, per esempio. Ed il senso di bellezza che sta dietro al lavoro, versione vera, dell’attore. La scena della scannerizzazione, col monologo di Harvey Keitel a Robin Wright che passa in rassegna tutte le espressioni umane possibili, vale da sola l’intero spettacolo. Il finale raddoppia la posta. E ricorda che essere persone ha un senso straordinario anche nella sofferenza. Per via della memoria, forse. Che dà valore alla bellezza.

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