Colazione in quarantena

Devo chiederti scusa. Si, hai capito bene. Devo porgerti i più sinceri “mi dispiace”. Perdonami, casa, se in questi anni ti ho maltrattata e data per scontata. Si, è proprio a te che chiedo scusa, mentre durante un insolito 25 marzo ascolto la neve scendere e posarsi sul lucernario in cucina. Eh, sì, è strano persino che possa nevicare a marzo, eppure, tutto sembra in rivolta. Le persone, le città, il mondo, il mio cuore. C’è un silenzio così assordante che a tratti mi fa paura, mi dico mentre adesso preparo il caffè. Il quinto per l’esattezza. Mi piace il profumo del caffè che si spande per casa. Come mi piace scrivere “mi dico”, che è così grammaticalmente sbagliato ma allo stesso tempo giusto per chi riesce a guardarsi dentro. Ma questa è un’altra storia. Dicevo. È che mi perdo spesso. Anzi, la verità è che mi perdo sempre: mentre sono tra gli altri, mentre sono da sola. È come se dicessi, in silenzio: “Ho bisogno di essere trovata“. È troppo facile perdersi. Tra il passato, tra il presente, tra quell’ enorme buco nero che è il futuro. Che poi, il futuro, non è nient’altro che la somma di ogni presente che passa, quindi di cosa abbiamo paura se ci siamo pur sempre dentro? Non lo so, ma so soltanto che, a volte, basta qualcuno ti prenda per mano, ti riporti sulla retta via e che ti dica “cento libera tutti”. Ecco, avete visto? Mi sono persa di nuovo tra le cose che ho da dire. Aspettate ancora un attimo, prima di ritornare al punto di partenza. Sapete che adesso non possiamo più prenderci per mano? Sembra uno scherzo, vero? Eppure, no, non lo è. È una misura restrittiva. Non è vietato solo tenersi per mano, ma anche avvicinarsi, baciarsi e specchiarsi l’uno negli occhi dell’altro. Che brutta punizione, non credete? Però le punizioni servono per imparare, diceva mia nonna. Magari la prossima volta saremo più attenti nel donarci, nell’abbandonarci in quegli abbracci giusti. Forse tutto questo serve per darci una lezione, mi piace vederla così. Per non sottovalutare i gesti fino ad ora scontati. Proprio come abbiamo fatto con le nostre case e con gli inquilini al suo interno: la nostra famiglia. Per questo devo chiedere scusa. Per aver preso sottogamba la fortuna di avere una casa con una famiglia dentro. Mi chiamo Gilda, a novembre compio 30 anni ed ho sempre abitato in questa casa con i miei genitori e le mie due sorelle. Spesso mi sforzo di ricordare attimi della mia infanzia, ma ho ricordi sfuocati, forse perché ho la testa piena zeppa di cose inutili. “Quante cose inutili abbiamo nella testa” cantava Pino Daniele. Ed è proprio così, caro Pino. Me ne sto accorgendo, sai? Quante cose inutili. È come se il mondo, li fuori, si fosse fermato ed io possa guardare il film della mia vita. Avevo quasi dimenticato che in cucina, dietro l’antica dispensa in legno della mia bisnonna, ci fosse un vaso con dentro due racchette ed una pallina. E a casa mia nessuno gioca a tennis. Avevo persino dimenticato il calore del letto dei miei quando una mattina, costretta a svegliarmi presto a causa delle videolezioni di mia sorella, mi sono addormentata al posto di mia madre. Avrò dormito due ore, come quando ero bambina. Non mi ricordavo si dormisse così bene, li. Così come avevo completamente rimosso la cyclette ferma da sedici anni sul balcone. Quante cose ci siamo persi, in queste quattro mura? Perché cerchiamo fuori quello che, probabilmente, abbiamo dentro? Nel frattempo, il caffè borbotta per uscire. Lo verso. Era da un po’ che non riflettevo davanti alla mia tazza di caffè caldo un po’ troppo amaro. Resto seduta, ferma, immobile, con lo sguardo perso e la mente chissà dove. Rifletto, rifletto molto. Penso a come tutti noi abbiamo questa smania di costruire qualcosa, di affrettare tutto perché altrimenti “sei fuori tempo“. E adesso che tutti siamo costretti a star fermi per preservare le nostre vite, continuiamo ad essere fuori tempo? Cosa ne è stato di tutte quelle cose che dovevamo fare? “Costruire” è l’opposto della vita stessa proprio perché, in un qualsiasi momento, può venire meno. Proprio come in questo preciso istante. È tutto così labile. Così fragile. Si combatte per la vita restando fermi, immobili. Ognuno al proprio posto. Così dicono alla tv. Ecco perché ho imparato a prendere il caffè amaro, perché le notizie, nella vita, non arrivano dolcemente. È una vita di caffè amari. Di nuvole passeggere ma puntuali. Di sensazioni. Una vita di corsa, arrancando sempre. Ed ora, nessuno corre più. Riesco a sentire il mio respiro. “La mia voce è sempre sul punto di spezzarsi, ma non si spezza mai“. Diceva il mio libro preferito. Da quanto tempo è che non leggi?

Da quanto tempo è che non impari?

Da quanto tempo è che non piangi?

Da quanto tempo è che non ridi con le lacrime?

Il tempo, che concetto astratto. Prima sembrava ne avessi poco mentre adesso un giorno dura tre vite. E allora leggi, impari, piangi, ridi. Tra quelle mura che ti hanno cresciuta, cullata, amata. E allora si, ti chiedo scusa, casa, per tutte quelle volte che ti ho data per scontata. Ogni volta che scrivo questa frase mi accorgo di come sia musicale. Magari scriverò una canzone. Il caffè è finito, poso la tazzina nel lavandino e noto che ci sono tre pezze: una gialla, una verde e una rossa. Peccato, se la gialla fosse stata bianca avrei fatto una bandiera. Vado vicino al camino, la fiamma è calda. Mi siedo, guardo i colori del fuoco. Alzo la testa e ringrazio il cielo. Chissà come sarebbe stato tutto questo se avessimo avuto le bombe fuori a tormentare le nostre notti. Allora il divano non è poi così male, non è un sacrificio così forte. Verso una lacrima, alzo la musica. Scusa casa, iniziamo insieme questo nuovo giorno.