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Assistenti civici e moral suasion: sono davvero soltanto “esercizi spirituali”?

La recente questione degli “assistenti civici” volontari,  annunciati dal governo, è stata oggetto di un ampio dibattito che ha interessato trasversalmente tanto i mezzi di informazione quanto i social media, suscitando anche le osservazioni (e talvolta le repliche) del mondo politico e delle istituzioni locali. 

Sugli assistenti civici e le loro funzioni moltissimo si è scritto e detto, non senza rilievi (tavolta fin troppo) critici. Secondo le attuali previsioni, si tratterà di volontari senza una formazione specialistica precisa, incaricati di offrire la propria collaborazione nel difficile momento di ripresa dopo il lockdown. In particolare, gli assistenti saranno impegnati in una funzione di moral suasion: realizzeranno una capillare operazione di reminding delle regole connesse agli spostamenti, offrendo nel resto una collaborazione concreta al rispetto delle regole pratiche di prevenzione del contagio.

Il problema principale connesso a questo difficile compito è stato più volte rimarcato negli ultimi giorni: gli assistenti civici non potranno sanzionare le trasgressioni alle regole e non avranno alcun potere da “guardia civica”. Si limiteranno, come anticipato, alla moral suasion: alla sensibilizzazione sul rispetto delle regole. Attività che è stata ironicamente bollata in qualche virale discorso degli ultimi giorni come “esercizi spirituali”, nella cornice di un’operazione “mistica”.

In realtà, la questione accende un riflettore su un tema importante che, nelle spire vorticose della crisi epidemiologica e, in particolare, nelle pieghe turbinose di decreti, provvedimenti, divieti, comandi (e comandamenti) più e meno rigorosi, sembriamo aver dimenticato. 

Certa parte dell’opinione pubblica soffre di un radicato pessimismo, di una consumata rassegnazione verso la bontà dell’animo umano, alimentata anche da un ondivago pregiudizio (assai controproducente) che macchiettizza l’italiano medio nelle vesti del furbastro, pronto a cercare la scappatoia, la via semplice.

Per spiegare questo sentimento, basta un esempio: sui cartelli esposti si legge sempre “è severamente vietato”. Qualcuno sottolineava il valore simbolico del “severamente” che dimostrerebbe come, se qualcosa è vietata ma non “severamente”, si sia vittime della tentazione di farla.

Sull’onda di questo sentimento, siamo abituati a pensare che l’unico strumento “effettivo” per trattare un trasgressore sia la sanzione, la punizione. Che l’unico modo per assicurare il rispetto delle regole sia presidiarle  di sorveglianti, armati del mezzo punitivo.

Così, però, non è. O almeno non sempre.

La sanzione è il metodo più semplice per trattare una violazione, non il più efficace. Anzi, l’esigenza di punire non sempre risponde a una logica educativa, semmai a un bisogno viscerale di tipo retributivo: dare a chi sbaglia ciò che gli spetta

In questa concezione pessimistica, difficilmente potrà trovare cittadinanza la moral suasion, ossia un’operazione di convincimento morale dell’interlocutore, con lo scopo non di punire dopo una sua condotta, ma di prevenire prima in radice la trasgressione.

Eppure, le recenti esperienze nazionali e internazionali provano come la sensibilizzazione sia uno strumento efficace per il superamento di certe naturali tendenze all’inosservanza del vivere civile. 

Ad esempio, esiste un procedimento presso la Banca d’Italia che sanziona le banche colpevoli di comportamenti scorretti verso i clienti con l’iscrizione in un registro pubblico su internet. Ora, potrebbe pensarsi che una lista dei “cattivi” del capoclasse sia del tutto inefficace verso colossi bancari; eppure è provato come un tale strumento si sia nei fatti dimostrato assai efficace. 

Tornando agli assistenti civici, è evidente che – in particolare nel difficile momento che sta attraversando l’Italia – a seguito della normativa torrenziale scaturita con l’emergenza e delle notizie contraddittorie apparse sui social media, sia obiettivamente difficile per alcuni percepire il confine tra pratiche giuste e sbagliate per prevenire il virus. 

Gli assistenti civici contribuirebbero a ricordare le regole e sarebbero anche investiti di compiti collaborativi che, pur sembrando marginali, faciliterebbero questa difficile transizione. Gli esempi circolati sugli organi di stampa sono stati aiutare le persone ad entrare in luoghi aperti al pubblico, scaglionando le entrate, consegnare la spesa a domicilio alle persone anziane.

Si tratta di attività che dovrebbero scaturire naturalmente dalla comunità, senza bisogno di alcun bando governativo e di alcuna pettorina catarifrangente. Eppure, vi è il concreto rischio che – nel caos del dopo-pandemia – qualcosa o qualcuno venga dimenticato nelle pieghe della ripresa. 

Il bando per gli assistenti civici è quindi, più che altro, un invito a istituzionalizzare il contributo che già molti danno o vorrebbero dare verso le persone del proprio vicinato, quartiere, città. È un tentativo di risvegliare, canalizzare e organizzare una collaborazione civica sistematica che consenta di fare una seria e capillare campagna d’informazione sul territorio in ordine a quali siano i reali accorgimenti per evitare i contagi. 

È naturale che, finché derideremo l’assistente civico perché non ha poteri di sanzione, difficilmente la sua moral suasion potrà funzionare. Come sempre, è una questione di cultura giuridica, che si dimostra anche nell’ascoltare le raccomandazioni del semplice assistente di quartiere “perché sono giuste”, non “perché altrimenti mi fa la multa”. 

Infelice è infatti quel paese in cui i cittadini rispettano le regole per paura della sanzione e non perché le ritengano giuste. 


Già pubblicato su L’Altravoce dei Ventenni – Quotidiano del Sud 8/6/2020